"Escribid con amor, con corazón, lo que os alcance, lo que os antoje. Que eso será bueno en el fondo, aunque la forma sea incorrecta; será apasionado, aunque a veces sea inexacto; agradará al lector, aunque rabie Garcilaso; no se parecerá a lo de nadie; pero; bueno o malo, será vuestro, nadie os lo disputará; entonces habrá prosa, habrá poesía, habrá defectos, habrá belleza." DOMINGO F. SARMIENTO



sábado, 14 de febrero de 2009

ROSARIO, LA “CHICAGO ARGENTINA”

Mentre a Chicago c'era il capo di tutti i capi mafiosi, Alfonso Capone, detto "scarface", qui invece c’eravamo un tale Giovanni Galiffi, detto "Ciccio Grande", di origine siciliana, recato in Argentina nel 1910 a 18 anni e radicatosi a Galvez, Provincia di Santa Fe.
La storia di questo Al Capone argentino è molto particolare perchè sebbene fu spesso accusato d’assassinio, scommesse, truffe e sequestro di persone, tra l’altro, non fu mai dimostrato nulla.
Cominciò come si dice dalla gavetta, da semplice operaio diventa parrucchiere, poi barista e falegname. In seguito comprò case e vigneti a Mendoza e San Juan e cavalli da corsa.
Dicono che questo ruolo d’imprenditore di successo era solo la facciata dietro la quale funzionava un impero mafioso di grande portata: l’Onorevole Società.
A questa organizzazione gli vennero attribuiti sia il sequestro che l’omicidio dello studente Abel Ayerza e di Silvio Alzogaray, giornalista del Crítica.
Ma la comparsa di Francesco Morrone, detto Alí Ben Amar el Sharpe o Ciccio Piccolo, fece tremare la struttura di Galiffi. Però a Rosario non poteva che esistere un solo "capo di tutti i capi".
Infatti, nel 1933, Morrone moriva impiccato dagli uomini di Don Galiffi. Dopodichè Ciccio Grande si consegnò all’autorità poliziale dicendo di essere stato vittima di falsità.
Senza prove contro di lui fu deportato in Italia nel 1935, già rientrato in Patria, fece stretta amicizia con Benito Mussolini.
Morì nel ‘43, in piena II Guerra Mondiale, durante un bombardamento alleato su Milano, ma non colpito dalle bombe ma da un infarto cardiaco nel suo letto.
Qui si dice spesso: morto il cane, finita la rabbia, però nessuno se ne accorse che il problema non era proprio un cane ma...una gatta!
Agata Cruz Galiffi, figlia di Don Ciccio Grande, sarebbe stata la protagonista del seguito di questa storia. La ragazza di occhi verdi, cappelli bruni e bella figura, portava senz’altro il DNA di suo padre che ammirava tanto.
Agata, detta la gatta, era cresciuta tra la prostituzione, i sequestri, l’assassinio e gli scontri di potere tra i capi mafiosi.
Lei si era accorta che tutto cominciò a crollare dal momento in cui Natalio Botana, proprietario del Giornale Critica, aveva proposto a suo padre un accordo che egli non accettò.
Da quel momento, le prime pagine del Critica non parlavano d’altro che di Don Ciccio Grande e delle operazioni portate avanti dall’Onorevole Società.
"La Gatta" Galiffi, accompagnata d’Arturo Pláceres, si propose di riorganizzare la Società creata da suo padre.
Aveva solo 23 anni quando nel 1938 venne presa, assieme al compagno, sotto accusa di una sparatoria –più degna della Chicago di Elliot Ness- e falsificazione di denaro. Nonostante ciò riuscirono a scappare a fuoco e piombo lasciando dietro di loro due poliziotti morti.
Tutti e due vennero nuovamente catturati il 23 maggio 1939 ed inviati a Tucumán. Ad Agata Galiffi diedero una condanna di 10 anni.
Pagato il debito con la società tornò a Rosario per poi trasferirsi a San Juan, dove i Galiffi avevano una bottega.
Nel 1972 fu scoperta dal giornalista di una rivista, faceva una vita pulita, da grande donna, proprietaria di un bel negozio di calzature.
La chiamavano "la Nena" o semplicemente signora –non più "la gatta"- e solo si parlava meraviglie su di lei.
Di quegli anni di avventura solo conservava un medaglione al collo con la foto di suo padre che aveva tanto amato.

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