"Escribid con amor, con corazón, lo que os alcance, lo que os antoje. Que eso será bueno en el fondo, aunque la forma sea incorrecta; será apasionado, aunque a veces sea inexacto; agradará al lector, aunque rabie Garcilaso; no se parecerá a lo de nadie; pero; bueno o malo, será vuestro, nadie os lo disputará; entonces habrá prosa, habrá poesía, habrá defectos, habrá belleza." DOMINGO F. SARMIENTO



martes, 13 de noviembre de 2018

SULLE TRACCE DI LUIGI EDOARDO CAPPARUCCI


Di Giorgio Alberto Garrappa Albani

Cent’anni fa, sul finire della Grande Guerra d’Italia, un pilota da caccia pregava alla Madonna a bordo del suo piccolo aereo quando la morte sembrava inevitabile. "¡Madonna mia, aiutami tu! Che la morte sia rapida". Era Luigi Edoardo Capparucci, un mio concittadino italo-argentino, volontario al servizio della 78ma. Squadriglia da Caccia della Regia Aeronautica Militare Italiana.

La 78ª Squadriglia fu un reparto da caccia che, dal 10 agosto fino al 24 ottobre 1917 (rotta di Caporetto), operava dal Campo Aereo di Borgnano, in Friuli-Venezia Giulia.
Dal 27 ottobre -durante l'offensiva finale italiana iniziata il 24- la 78ma. Squadriglia compiva voli di crociera e di caccia libera, abbattendo velivoli nemici, spezzonando e mitragliando le truppe austro-ungariche in ritirata.
Capparucci, era nato il 13 marzo 1895 a Colonia Rafaela (oggi Città di Rafaela), Provincia di Santa Fe (Argentina).
I suoi genitori, poco dopo la sua nascita, rientrarono in Italia, a Montecassiano, Provincia di Macerata (Le Marche).
Quel 30 ottobre 1918, la 78ma. Squadriglia veniva chiamata ad una missione d’attacco contro gli austriaci postati sulla pianura di San Fior di Sopra, vicino Treviso (Veneto).
Quando i piccoli biplani francesi “Hanriot HD1” argentati -con delle sciabole azzurre dipinte sui fianchi- giunsero sul nemico, furono preda di un furibondo fuoco antiaereo austriaco
Capparucci fu sorpreso da una esplosione che lo sconvolse violentemente nel cockpit. In seguito, il motore comincio a fumare profusamente.
Il Sergente Luigi Capparucci subito si rese conto di essere stato colpito per cui sarebbe preda delle fiamme in poco tempo.
Il suo destino possibile sembrava essere uno solo, morire carbonizzato nel cockpit del “Hanriot” che, dovuto alla strettezza, non permetteva ai piloti portare loro paracaduti.
Solo un miracolo potrebbe portarlo a casa sano e salvo.
Il Sergente Oreste Codeghini, collega che volava al suo fianco, osservo questa drammatica scena senza poter fare nulla. Purtroppo, la morte richiamava tutto il tempo e quel giorno sembrava fosse il turno di Capparucci.
Il santafesino comincio ad arretrarsi, il motore fece l’ultimo stertore e con una corta esplosione si fermo l’elica.
Laggiù, gli austriaci esultavano per la fine fatta dall’aereo italiano ed ora puntavano su quello di Codeghini.
Fucili, mitragliatrici e cannoni di tutto tipo sputavano fuoco e piombo sull’aereo a 100 metri di quota.
Tra il fumo che invase il cockpit di Capparucci, apparve un terreno in cui tentare un atterraggio di fortuna. Si trattava del Campo San Fior, abbandonato poco fa dall’aeronautica austriaca.
Con dei segni fece sapere a Codeghini che cercherebbe di atterrare al di là della cortina di alberi.
Il suo compagno decise attrarre il fuoco nemico verso di lui mentre Capparucci si lanciava sulla pista del campo aereo.
Il “Hanriot” di Capparucci scivolo sul prato come l’ape lo fece sul fiore. Dopodiché slacciò la cintura di sicurezza e salto dal cockpit allontanandosi di corsa.
La Madonna, a cui si era sempre rivolto, gli venne in mente. Nonostante ciò nulla era ancora finito.
Sentì alle spalle il motore dell’aereo del suo camerata e lo vide atterrando abbastanza vicino a lui. Capparucci corse e sale letteralmente in groppa alla fusoliera del “Hanriot” che subito decolla.
Con il suo collega aggrappato alle sue spalle, fuori dalla cabina di pilotaggio troppo piccola per ospitarli entrambi, Codeghini riuscì ad atterrare a San Luca di Treviso.
La Madonna non abbandono mai Capparucci e gli invio un angelo: Oreste Codeghini.
Anzi, finché Luigi non cadesse a terra, Oreste fece l’atterraggio più curato di tutta la sua carriera.  
Molti videro quel vero miracolo e qualcuno di loro prese una fotografia che immortalo quel momento.
Alla data dell'armistizio, la 78ª si trovava a San Luca, facendo parte del XXIII Gruppo alle dirette dipendenze dell'8ª Armata del Generale Enrico Caviglia, con 16 aerei efficienti.
La 78ª Squadriglia effettuò complessivamente: 1296 voli di caccia, 2420 di crociera, 1054 di scorta, 217 di mitragliamento, impegnandosi in 443 combattimenti aerei con 88 vittorie. Luigi Edoardo Capparucci, dopo la fine della guerra, si fece devoto della Madonna di Loreto, padrona degli aviatori.
Il 1° dicembre 1918, Capparucci venne promosso Sergente Maggiore – Campo di Fossa Lunga (Treviso), 78° Sqd. 
Il 10 dicembre 1921 – Promosso Maresciallo.
Il 5 settembre 1922 - Capparucci atterro per la prima volta sull’Aeroporto di Loreto, provenendo da Aviano con uno SPAD XIII.
Il 16 ottobre 1923 - Promosso Maresciallo di 2° Classe.
Nel 1924, Capparucci, già abilitato sui velivoli Aviatik, Farman 14, SAML, Nieuport 1, Hanriot-Dupont 1, SPAD VII e XIII, entro alla scuola di pilotaggio di Foggia Sud per il passaggio sul velivolo BR.
Nel novembre 1924 - Venaria alla 78° Sqd. - 1° Stormo Aeroplani da Caccia -13° Gruppo.
Nel 1925 - Ottenne l’abilitazione sui nuovi Caccia FIAT CR e CR.
Nel 1926 - Trasferito alla 85° Sqd. la quale verrà munita nel 1927 del CR 20 su cui Capparucci fece il passaggio.
Il 3 marzo 1928 – Promosso Maresciallo di 1° Classe.
Nel 1928 - Alla Scuola di Osservazione Aerea per poi tornare alla 85° Sqd.;
Nel gennaio 1931 - Campo di Loreto. Distaccamento della 25° Sqd. Aeroplani da Osservazione Aerea del 67° Gruppo del 21° Stormo.
Tra 1934-1939, Capparucci fu nominato Istruttore Professionale di Pilotaggio D.C. (a doppio comando), presso la Scuola di Loreto.
Nel 1939 Capparucci, dopo aver lavorato per un anno a Jesi, dove era stata trasferita la 25° Sqd. O.A., fu inviato a Falconara come Istruttore di Pilotaggio di Primo Periodo a D.C. con il Ba 25 e poi con il FIAT A.S.I.
Nel 1940 - Transito nel Ruolo Servizi con il grado di Sottotenente. Assegnato al Comando Aeroporto di Perugia è istruttore di volo su aerei civili Ca 100; promosso Tenente rimase con mansioni aeroportuali fino all’8 settembre 1943.
Nel 1955 - Promosso Capitano nella Riserva.
Nel 1972 - Promosso Maggiore a “titolo onorifico avendo partecipato alla guerra di liberazione con il Fronte Clandestino.
Per la sua partecipazione Capparucci ricevette: la Medaglia d’Argento al V.M., Medaglia commemorativa della Guerra 1915-18 con quattro campagne, Medaglia di Lunga Navigazione Militare Aeronautica, Croce d’Oro per anzianità di servizio, Cavaliere dell’Ordine della Corona d’Italia e Cavaliere di Vittorio Veneto. Deceduto in Ancona il 6-
Il Maggiore rafaelino, Luigi Edoardo Capparucci, mori a Ancona (Le Marche) il 6 febbraio 1980 all’età di 85 anni.

sábado, 21 de julio de 2018

L'ORA LEGALE DELL'ARGENTINA


Di Giorgio Garrappa Albani

Altro che metafora cinematografica. “L’ora legale” è la palese realtà che si avvera in quest’Argentina che, due anni fa, voleva un cambiamento radicale proprio come Pietrammare nel film di Ficarra e Picone.

Guardando il recente film “L’ora legale”, ho visto le somiglianze tra l’Italia e l’Argentina di oggi.
Quella “fiction” trascorre in un paese della Sicilia – Pietrammare - in cui la stragrande maggioranza dei residenti sono in fermento per le prossime elezioni amministrative.
I cittadini, che avevano subito e si erano abituati da sempre ad amministrazioni corrotte come quella del Sindaco che vuole essere rieletto, vogliono un cambiamento.
Od almeno è quello che pensano.
Un semplice professore, onesto e molto impegnativo, promette cambiare le cattive abitudini dei cittadini, mettendo a posto, senza alcuna distinzione, tutto ciò che va fuori regola o fuori legge.
Parcheggio anomalo, abusivismo edilizio, rifiuti, qualità di vita dei cittadini, inquinamento industriale ed altro vanno man mano, regolarizzati.
Questi cambiamenti, cosi radicali ed elencati in campagna elettorale, vengono compiuti senza esitare dal sindaco eletto.
Contemporaneamente, tutti coloro che avevano, fino ad oggi, fatto uso di qualche favoritismo illegale, ma interpretato come normale, si sentono minacciati.
Ma non solo.
Infatti, perfino il potere di Roma, messo al corrente di questa ventata politica che soffia da Libeccio, vede tremare le fondamenta della corruzione e l’impunità politica regnante nell’intero paese.
E una cosa del genere non potrebbe mai capitare.
Anche il parroco di Pietrammare, che aveva spinto fortemente per il cambiamento, si rifiuta di pagare le tasse del suo “bed and breakfast”.
Dopodiché dichiara guerra pure lui al nuovo Sindaco.
Al di là di mostrare come la città sia davvero migliorata grazie agli sforzi di tutti, l’appena eletto Sindaco –sei mesi prima- viene costretto a dimettersi dalla folla mobilitata e comandata dagli operatori politici e… dal Prete!!!
Cioè, politica e chiesa contro la legalità e l’onesta?   
Finito il periodo dell’ora legale italiana, l'ex sindaco corrotto tornerà a governare Pietrammare.

Macri vince nel ballottaggio del 2015 perché gli argentini volevano un cambiamento radicale.
Proprio come i cittadini di Pietrammare.
Comunque il suo partito politico “Cambiemos”, non raggiunge la necessaria maggioranza in Parlamento.
Sin dall’inizio, l’opposizione politico-sindacale -che non si aspettava una sconfitta del genere- si vede minacciata all’ergastolo da una giustizia storta e comincia a mostrare la sua peggiore faccia reazionaria.
La premeditata e molto simbolica “assenza” del Presidente uscente, la vedova Cristina Fernandez fu la palese dimostrazione dell’avvenire.
Lei si rifiuto di consegnare al Presidente eletto, Mauricio Macri, gli attributi dell’istituzione presidenziale argentina.
A parte questo, a poco a poco si verifica una certa mancanza di collaborazione dai settori economici ed imprenditoriali a cui appartiene il proprio Presidente.
Incredibile.
Tocca a MM scavalcare una eredita micidiale, lasciata dal populismo Kirchnerista: 40 % d’inflazione annua, 32 % di poveri, ingrandimento smisurato dello stato, crollo del sistema energetico nazionale, mancanza d’infrastruttura produttiva, distruzione del sistema statistico nazionale ed altissimi costi di produzione, tra l’altro.
Tutto ciò immerso nel mare di una corruzione mai vista.
Dopo due anni di governo si vede qualche miglioramento: riduzione di 2 punti di povertà, meno corruzione, opere d’infrastruttura produttiva in corso, ricostruzione del sistema statistico, riduzione dell’inflazione anche se continua ad essere ancora molto alta dovuto all’aumento dei prodotti basici, specie alimentari.
Per ricostruire il sistema energetico ci voleva ritagliare progressivamente i sussidi statali all’energia pero, la politica fiscale di gradualismo, non ce l’ha fatta a fermare la spirale inflazionaria.
Sfortunatamente, la siccità che colpi l’Argentina duramente nel 2017/18 ha lasciato perdite enormi dell’ordine dei 5.000.000,00 u$s. 
Malgrado tutto ciò, lo scorso anno il paese era riuscito a riconquistare la fiducia dei mercati vendendo 2,75 miliardi di bond centennali, facendo parlare di una svolta con la nuova amministrazione.
Molti riconoscono le riforme fatte dall'amministrazione del calabrese Macri, che nonostante le proteste hanno ravvicinato Buenos Aires al Fmi e ai suoi dettami liberisti: dal mercato del lavoro e dalla burocrazia al fisco.
Come nel film italiano, pare che sia finita la luna del miele fra il presidente Mauricio Macrì - che aveva promesso di attrarre capitali e riequilibrare le finanze pubbliche – ed alcuni investitori appartenenti al “Cerchio Rosso”.
È vero però che molti formatori dei prezzi locali hanno tradito al Presidente e lui lo ha percepito con chiarezza.
Al carovita, che non ha soluzione di continuità, ora si aggiunge il “carry trade” dai capitali esterni che tornano negli Stati Uniti in cerca di migliori tasse e al sicuro.
Questo fenomeno ha scatenato una corsa della valuta statunitense che per tentare di frenarla obbligarono al governo a rialzare spaventosamente le tasse d'interesse al 50% e svalutare il peso del 45% circa.
Il fantasma del 2001 è tornato a sorvolare il Paese.
Tutto ciò succede mentre i mercati chiedono a Macri una riduzione dell'inflazione con misure fiscali che, per forza, sono impopolari ad un anno dell’elezioni presidenziali.
Stretta del bilancio, anticipata e maggiore del previsto.
Macri rischia così di restare intrappolato in una manovra di aggiramento costretto da una parte a fare i conti con la finanza estera, dall'altra col malcontento popolare che torna a farsi sentire e braccio di ferro con i sindacati che chiedono aumenti per mantenere gli stipendi al passo con l'inflazione pero aumentando il costo produttivo argentino e facendolo meno concorrente in riguardo ad altri paesi della regione.
Un panorama davvero dantesco cui risoluzione dipenderà solo dalla guida di Macri ed il comportamento della sua squadra.
Pare che i gli ultimi cambiamenti, soprattutto quello della banca centrale, oggi sotto la guida di Nicolas Caputo, stiano dando risultati mettendo il dollaro sotto un certo controllo.
Ma le scosse non sono ancora finite.
Il secondo semestre dell’anno vedrà una pronunciata recessione economica e i ritagli fiscali saranno all’ordine del giorno e a tutto livello.
Dopo una caduta strepitosa del PIL nel 2018, si aspetta nel 2019 una crescita di 1,5 punti del PIL ed una inflazione dell’ordine del 17%.
Questi duri cambiamenti, compiuti senza esitare dal governo, sono visti dall’opposizione populista come una debolezza ma anche come una minaccia.
Certo che se il piano di Macri -con il supporto del Fondo Monetario Internazionale- avesse successo, poterebbe portarlo senza sosta alla rielezione nel 2019.
Altrimenti tutto può finire come “L’ora legale”.

viernes, 6 de abril de 2018

DIARIO DE UN MARTIRIO DE 372 DIAS

(Fuente: Revista Gente, Año 12 Nro. 612 – 14 de abril de 1977)

Sólo frente a la muerte, sin esperanzas, el Mayor Argentino del Valle Larrabure, escribió durante su cautiverio lo que le dictaban el dolor, la nostalgia y el recuerdo de sus seres queridos. Este es su diario. Un documento que no se puede leer sin lágrimas.
En pocos días la Cámara Federal de Rosario podría considerar el asesinato del Coronel (post mortem) Argentino del Valle Larrabure -por un Comando del ERP en 1974- como Crimen de Lesa Humanidad.

“A Dios, que con tu sabiduría omnipotente has determinado este derrotero de calvario, a tí invoco permanentemente para que me des fuerzas.
A mi muy amada esposa, para que sobrepongas tu abatido espíritu por la fe en Dios.
A mis hijos, para que sepan perdonar.
Al Ejército Argentino, para que fiel a su tradición mantenga enhiesto y orgulloso los colores patrios.
Al pueblo argentino, dirigentes y dirigidos, para que la sangre inútilmente derramada los conmueva a la reflexión para dilucidar y determinar con claridad que somos hombres capaces de modelar nuestro destino, sin amparo de ideas y formas de vida foráneas totalmente ajenas a la formación del hombre argentino.
A mi tierra argentina, ubérrima y acogedora, escenario infausto de luchas fratricidas…, para que cobije mi cuerpo y me dé paz.

Mi intención no es el insulto ni formular personalismos. Más bien me impulsa a escribir este cautiverio que me sume en las sombras pero que me inundó de luz. Mi palabra es breve, sencilla y humilde; se trata de perdón y que mi invocación alcance con su perdón a quienes están sumidos en las sombras de ideas exóticas, foráneas, que alientan la destrucción para construir un “mundo feliz” sobre las ruinas.
Mis enemigos son medrosos y pusilánimes ante iguales y superiores. Impulsivos, cortantes y autoritarios ante inferiores, débiles, cautivos y desarmados. Valientes en las sombras, en la sorpresa, en la espalda o en el insidioso dardo arrojado por detrás a su oponente. En el cautiverio se corta abruptamente la relación con un medio, formado por la integración de familia, trabajo y amigos. Se cae a una celda estrecha, húmeda. Un escondrijo de ratas donde los carceleros encapuchados juegan una suerte de duendes o de brujas.
Soledad de voces y ausencia total de facciones vivas. La cara es reflejo del alma y los mentados “carceleros del pueblo” son capuchas móviles, insensibles, endurecidos por resentimientos de profundas raíces. Son carceleros sin alma.

SORPRESA Y SECUESTRO
El asalto embozado y sorpresivo constituye siempre el peldaño para secuestrar una persona que por la investidura de un cargo, por la posibilidad de servir de rehén canjeable o para negociar el cambio por millonarias sumas, se transforma en un ave apetecida de quienes no siendo delincuentes comunes se vuelven mercaderes del dolo. Del dolo para muchos no punibles, porque son ellos los secuestradores integrantes de pseudo ejército que lucha por reivindicaciones populares. Son “luchadores anónimos contra las injusticias populares”. No puedo imaginar qué ventura de hálito bondadoso y sutil acaricia su accionar delictivo, qué hace que su carroña se transforme en doradas mieses.
En esta tierra de gallegos y tanos, donde el ser hijo o descendiente de inmigrantes es lo común, quién puede cantar loas de discriminación racial, nadie. Sin embargo los hijos legítimos de la tierra, los aborígenes, desaparecen víctimas de endemias y desposeídos porque sólo aventan sus dolores los integrantes de congregaciones religiosas que concretan en diversos rincones del país obras silenciosas pero de profundo contenido humano.
Los poseídos de las inquietudes marxistas-leninistas ignoran al aborigen porque el indio con su fuerza telúrica vive en confines donde ellos no llegan. A veces llegan como en 1968: un tercer mundista, el ex sacerdote Ferrari, y un grupo de ambos sexos llegaron a un lejano poblado de Formosa. Agitaron ideas, reconvinieron la “injusticia burguesa” que los tenía postrados en el olvido y la miseria, obsequiaron víveres y antes de los quince días regresaron a sus posiciones “burguesas” en Rosario. Pregunto: ¿no hubiera sido conveniente cumplir con el milenario refrán “NO LES DES PESCADO, ENSEÑALES A PESCAR”?.
Estos poseídos de transformaciones revolucionarias tras la sombra y la traición asaltaron la Fábrica Militar, donde en mi carácter de ingeniero militar me desempeñaba como subdirector. Eso fue una noche del 11 de agosto de 1974. Fue durante la realización, en las instalaciones del casino de oficiales de la Fábrica Militar de Pólvoras y Explosivos “Villa María”, de un acto “burgués” consistente en una reunión social.
Sorpresivamente atacado fui tomado como rehén por un grupo subversivo.

LAS HORAS INICIALES DE MI CAUTIVERIO
Estar cautivo de estos revolucionarios antiimperialistas, que arroban sus ideas en los “sobacos” del imperialismo ruso, chino, francés o del imperialismo que nace de la satisfacción de placeres fáciles, del sabor del poder asequible sin espera, del dinero, diciendo ser antiburgués cuando huelen a burgués desde cuando se amamantaban de los pechos de sus madres.
Estar cautivo de estos “próceres” es como estar atrapado en una telaraña, donde sustraído del medio nos vemos impotentes para liberarnos pero mantenemos la esperanza de una muerte.
Una “cárcel del pueblo” la titulan. Lo del pueblo está demás, por cuanto se gobierna por sus legítimos representantes. ¿Qué representan quienes se arroban el derecho de hacer purgar culpas con carceleros con capucha?.
Es necesario preguntar qué se proponen los siniestros cultores de estas cárceles, que medran con la violencia para lograr dinero, para financiar sus aparatosos y burocráticos sistemas de “delincuencia” revolucionaria. Burócratas carceleros con capucha.

MOVILES DEL ACCIONAR SUBVERSIVO
La subversión en su estrategia y en su táctica busca crear el caos nacional.
En la estrategia están los revolucionarios burgueses, con coches, mujeres, departamentos, buenas “pilchas” y cuentas en el extranjero.Su escenario es multinacional, hablan de “revolución de América latina” y sus representantes se reúnen en Praga, para recibir instrucciones de un “buen señor maestro en revoluciones”,que como es de suponer no se llama García, Fernández, Pérez o algún otro patronímico de origen español, itálico, común a nuestra vena, que nació con la corriente arrolladora de la inmigración. Venerados revolucionarios como nuestro máximo representante del partido comunista, el señor Victorio Codovilla, que murió en Moscú, donde fue enterrado. Pregonan que el poder sólo será conquistado por la lucha. Y la lucha, por las características de sus organizaciones será larga, insidiosa, sucia.

ME LLEVAN A UNA CELDA
Privado de mi libertad me encontré en un refugio húmedo, sin luz natural, lejos de ruidos y celosamente custodiado por encapuchados cuyos cambios de guardia constataba por el calzado que usan o por las manos. Manos en general jóvenes, con pieles tersas, clásica de la potencialidad física propia de la juventud, ávida por vivir, por aprender, por su esperanza en el futuro, por su intolerancia con la espera. Estos son mis carceleros, mis jóvenes encapuchados que resignan con su agresiva actitud la milenaria disposición que caracteriza a la juventud por su ternura, por su amor.
Omití referirme al traslado que de mí hicieron mis “benévolos captores”. Inyectarme un alucinógeno y cuando horas más tarde desperté me encontré en otro abyecto canil. Me desperté aturdido, tendido en un camastro, mi cabeza llena de zumbidos, mis ojos pesados, sin poder entreabrirlos. La luz de un tubo fluorescente hería mi retina. El techo, de unos dos metros de altura, mostraba su superficie de ladrillos huecos premoldeados. Mi “espaciosa” celda es un cuadrilátero de 2,20 de largo por 2 de alto y 1 aproximadamente de ancho. Aprecio que mi celda es una excavación porque carece de ventanas y una de las paredes laterales está burdamente revocada a cemento. El frente es de idéntica composición. El contrafrente es una pared de ladrillos huecos y una reja de aproximadamente 40 por 60 y el costado una divisoria de madera compactada. Una puerta de igual material da a un pasillo, donde existe otra lúgubre y húmeda celda.
Esa puerta de mi canil se cierra desde el pasillo. Este, a su vez está cerrado por una puerta de hierro, de las comunes puertas de calle, que da a un estrecho pasaje que lleva a una escalera de madera. La escalera tiene ocho peldaños y es sumamente empinada. Desemboca en un placard, cuyo piso de quita y pon cubre el acceso y dificulta cualquier control somero. Dos tubos de plástico negro de unos dos centímetros de diámetro conectan con el exterior y permiten la aireación mediante un extractor eléctrico cuyo funcionamiento depende de mis captores. Yo padezco la terrible desventura de pensar que puede dejar de funcionar y aumenta mi congoja de sentirme ahogado en este nicho donde el aire húmedo y enrarecido aumenta el asma que quebranta mi fuerza física.¡Oh, Dios, no me castigues muriendo ahogado, asfixiado, desesperado...!

CUANDO NO HAY DIAS NI NOCHES
Estoy confundido y quiero ordenar mis ideas. No sé de noches ni de días. Las horas no están marcadas por reloj. Me son dichas por mis “piadosos” carceleros encapuchados y por Radio Rivadavia, que ellos sintonizan y me hacen escuchar mientras me vigilan. Aquí, en este maldito subterráneo, en esta odiosa ratonera, los hombres me privan de percibir el día por el sol, por la luz, por el volar de los pájaros, por el cielo diáfano y celeste que nos llena de esperanza; de la noche, por la oscuridad, por la luna, por el titilar de las estrellas que nos hablan el lenguaje de lejanas galaxias.
El tiempo, en su inexorable derrotero, transcurre suave y feliz precisamente cuando oscuras nubes no ensombrecen nuestras vidas. Pero hoy, prisionero, sin entender la razón de mi cautiverio, el tiempo sólo sirve para dimensionar un tiempo transcurrido y un futuro cada vez más cerca de mi muerte o de mi liberación…¡Oh Dios! ¿Podré un día encandilar mis ojos con la luz del sol y palpitar mi corazón agitadamente junto a mi amada esposa, hijos y demás queridos?
Me han dado un lápiz y borradores y ya he confeccionado mi propio calendario.
Mis carceleros me han brindado entrevistas para hablarme de política. Por supuesto, de política revolucionaria empapada de Mao Tse Tung, Regis Debray, Giap, Ho Chi Minh, Guevara y demás. Les he expresado que mi formación es eminentemente técnica y no siento vocación y prácticamente me fastidia la política. Para prepararme me han entregado la bibliografía correspondiente y persisto en mi obstinación de mi poco apego a tales estudios e insisto en que deseo libros de matemáticas, física o química. Afortunadamente me hacen llegar libros de matemáticas y el estudio pone su aporte de terapia laboral a mi largo cautiverio.
Este vivir sin querer vivir, este transcurrir del tiempo sin ser dueño de él me hace volcar a diario a profundas meditaciones. Ellas me reencuentran con Dios, en quien deposito mi esperanza, de quien guardo infinita fe y me someto sumiso al destino que me dé y al recuerdo permanente de mis seres queridos, que vivirán una pesada cadena de dolor por esta separación e incertidumbre de mi destino.

EL RECUERDO DE UN LIBRO
Las marañas en este largo tiempo que dispongo traen a mi memoria un libro que leí hace más de 20 años. Se trata del libro titulado, ”Mis prisiones”, de Silvio Pellico.
En él, el autor compone una autobiografía en que cuenta su prisión por causas políticas, allá por el año 1820. Estaba segregado en una celda pero disponía de carceleros sin capuchas, que ya en el primer día se ofrecen a comprarle vino y se horrorizan al saber que Pellico no bebe, por cuanto entonces, según ellos, se le hará insoportable la soledad de la prisión. Son carceleros que en sus caras, en sus mejillas, traducen alguna consideración por los que sufren.
Pero el autor de Mis prisiones relata que en la soledad y el silencio de su celda se reconforta con su devoción a Dios y el recuerdo de los seres queridos que añora. Muy pronto, una Biblia le permitirá deambular en profundas meditaciones y muy pronto también se acerca a las rejas de su celda un niño, hijo de ladrones, que vive y crece al amparo de la cárcel donde su padre purga una pena. Pellico le arroja un pan, y advierte que el niño es sordomudo. El pequeño agradece con cariñosos gestos y así a diario se entabla una mutua comunicación por señas y muestras de gratitud del niño, que arrastra sus signos de desgracia en su sordera, en su mudez y el origen envilecido de un padre ruin.
La falta de distancia, la visión del día y de la noche, la mirada de piedad y consolación, la comunicación interior y exterior, la mirada a cara descubierta de los carceleros, el cruce de miradas amigas de otros presos con igual destino, con un médico viejo pero de amplio sentido humano, que brinda la autobiografía de Silvio Pellico, es un sustento que falta en esta “moderna y justiciera cárcel del pueblo”.

NO ES UN MEDICO: ES UN VERDUGO
Muy pronto, y como consecuencia de la estación primaveral que finaliza la temperatura va aumentando. Llegan las horas en que el aire se va enrareciendo. Hay en mi “canil” un gran porcentaje de humedad, y mi crónica afección asmática se ve recrudecida. Son solícitos en prodigarme asistencia médica. Un galeno con capucha viene, me ausculta y realiza una prolija revisación, le indico con sumo detalle otras dolencias físicas que me atormentan en el cautiverio: constantes dolores de cabeza, ardor estomacal producto de frecuente acidez, continuos deseos de orinar y un insomnio cruel que lacera mis quebrantados nervios. No veo la cara del médico, sus manos son de un hombre joven, de voz pausada y suave. Su examen, su presencia, constituyen una comunicación con el mundo exterior que llena mi espíritu de esperanzas, quizás inútiles, pero son peldaños de ilusiones, por cuanto un médico, un discípulo de galeno, un hombre que juró por Hipócrates, es un hombre con una formación, con una concepción humana que lo hace respetar al hombre, amarlo, cuidarlo, mejorarlo y aún ayudarlo a morir con esperanzas.
Esta concepción es una expresión acunada en mi fe en el hombre, en el hombre hecho a manera y semejanza de Dios. Pero no todos los hombres han recibido la luz de sus buenos maestros.
Con el médico estuve parlanchín y referí fluidamente mis dolencias. Estas persisten y por ello me parece propicio pedir que nuevamente un médico me atienda de mis problemas de salud.
Quiero la presencia del médico porque quizás pueda hablar con él de tal manera que además de mis males físicos pueda confiarle los dolores que oprimen mi espíritu. Quizás el pueda comprenderme y constituya el madero que en el naufragio llega con su sostén providencial. Si, medito y hablo conmigo mismo para repetirme: el médico me habrá de comprender y tendré por él la posibilidad de llevar a mi familia una comunicación un tanto directa y providencial, portadora de un hálito de fe y esperanza, en esa carrera de desventura que viven los míos. Despliego el envase de cartón de uno de los medicamentos y en su parte interior escribo mi mensaje de desesperado extraviado: ”Por favor, doctor, hable a Buenos Aires, al número... y diga que estoy bien... “.
El médico de acuerdo con mi pedido viene nuevamente. La revisación es prolija. Mi relación de mis malestares es sumamente esclarecedora pero reiterativa. El médico observa, escucha, ausculta, toma nota y me aporta su cuota de tranquilidad, expresándome que las nuevas medicaciones habrán de superar los pesares que sufro. En un instante en que el carcelero no observa, discretamente llevo a la mano del doctor mi mensaje y en mis ojos imploro que acepte ese compromiso de solidaridad con un ser humano quebrantado por un injusto cautiverio. La capucha asiente afirmativamente. Pero en ese asentimiento pude ver sus ojos, y nació en mi de inmediato el firme convencimiento de que la capucha es solo estuche de un hombre que está técnicamente preparado para ejercer la medicina, pero carente de sentido de piedad. Más bien es un hombre con cualidad de verdugo. Sí, éste es indudablemente el hombre nacido para manejar el hacha que secciona una cabeza en el cadalso, donde cae brusca, sanguinolenta. Donde un torso y extremidades dan estertores convulsivos al ser tocados por una súbita muerte. Al ver sus ojos he visto la malicia calculadora del sádico, que siendo médico sólo tiene el alma carnicera del verdugo. La negra tela de la capucha que trasunta la mejilla desencarnada de la muerte me espera paciente. En una espera que procura lenta para gozar de mi impotencia y de mi desesperanza, pero se nutre en su ansia fatídica, en que su cautelosa acechanza no será vana. El médico se fue con mi esperanza y mi duda. Amargo sabor de hiel el de esos ojos glaucos y fríos que vi en el orificio de la capucha, ojos de aves voraces que gozan de que la carroña de mi cuerpo sea devorada en amarga espera.
La esperanza se desvanece como letras escritas en la arena...

UN DIALOGO TERRIBLE
Después del mensaje frustrado que intentara cursar con el médico, hay una velada obstinación en observarme. Trabajo en mantener limpia y ordenada mi ratonera y estudiar diariamente matemáticas en el texto que me trajeron, además de papel borrador y lápiz. Esto constituye mi evasión y me posibilita la redacción de estos apuntes que hasta hoy he podido esconder de mis trabajos.
Mi certidumbre se afianza con la visita de un encapuchado que me dice: “Mayor, no se desespere y no trate de quebrantar su prisión. En la cárcel del pueblo Ud. permanece porque el Ejército al que usted pertenece, lo ha abandonado”.
“No estoy abandonado”, le respondo, “estoy acompañado por la fe infinita de Dios y por el amor de mis seres queridos, amigos y mi Ejército, que no me abandonará jamás, porque en él se forjó mi carácter, porque él perfeccionó mi intelecto y porque en él aprendí muy joven a aceptar y saber esperar a la muerte con templanza”.
“Usted, mayor, tiene una evidente inestabilidad emocional, y habiéndolo abandonado su Ejército, Ud. puede lograr su libertad.”
“¿Lograr mi libertad a cambio de qué?”
“Mayor, Ud. es especialista en armas y explosivos. Acepte Ud. trabajar como asesor para las fábricas de nuestra organización y será libre”
“Por ese precio, no...Sólo la muerte, que sabe a la pureza del fruto no corrompido. Morir, pero por ideales que están al amparo de símbolos que nos conmueven el espíritu con la visión de una nación altiva. Ricas pampas, ríos caudalosos, mocetones que sienten la Patria por la pureza de sus corazones libres y que ignoran cánticos foráneos y estrellas imperialistas de cinco puntas teñidas de rojo ¡Oh, muerte apetecida, te espero fiel a mi Patria y a mi Ejército!”
“Larrabure, Ud. tiene un desequilibrio emocional que no le permite apreciar exactamente su situación. Piense y hablaremos...”
“¡Sí, hablaremos para que cada vez que se consolide más mi fe y mi fidelidad!”
“Hablaremos, Larrabure...”

CIGARRILLOS IMPORTADOS
Quedo acalorado, nerviosos, tembloroso, y me arrojo en mi camastro, enardecido. Cuento los pasos de los peldaños de la escalera mientras por la reja mi guardia encapuchado sigue atento a mi actitud, busca la respuesta del diálogo en mi soledad. Tendido de cara al techo miro los ladrillos huecos de cerámica y arcilla cocida. Qué destino impío el tuyo, naciste para techo tibio de un hogar y hoy vives como pared estrecha de celda. Estás enlazado a viguetas de hierro y cemento, cuarenta centímetros me aíslan de la superficie. Arcillas quebradizas, frágiles, el tubo de luz fluorescente con sus cables conductores me pueden posibilitar electrizar la puerta de hierro o la reja de mi celda, pero todo esto es una esperanza, porque siempre están los ojos vigilantes del guardia que me mira silencioso en su capucha.
Hijo mal parido sería trocar este mísero encierro por una libertad física, mientras mi alma se envilece con el fango de estos miserable. Mi capacidad técnica la posibilitó mi Patria para ponerme al servicio de una sociedad, la sociedad argentina. Que no obstante sus imperfecciones ha dado siempre muestras de igualdad de posibilidades, es una sociedad abierta.
Esos, mis encapuchados, se han prestado a una revolución con el desenfreno de la juventud, con cánticos de Marx, de Mao, de Giap, el Che Guevara, Ho Chi Minh y Truong-Chnik en “la resistencia Vietnamita vencerá”. Están en la revolución. Entraron ayer, hoy son sus prisioneros y seguirán, porque hay que seguir como el río que no se detiene, es estar en el deleite de horas de zozobras y de luchas. Mientras me cuidan, fuman, y las volutas del humo de sus cigarrillos importados huelen a burgués y me ahogan en la estrechez de mi pocilga. El asma altera mis nervios y mis sentidos están atentos a que el extractor de aire no me traicione. El humo de los Camel me hace mucho mal. Humedad, humo, y creo sentir croar de ranas, ranitas verdes que podrán mirar las estrellas de un cielo inconmensurable. A diario, motores de automóviles ponen una nota acústica a mi vida. Son mis carceleros, que, atados al desvarío de sus pasiones, son prisioneros de ignorados duendes, integrantes de una organización, en su interior han palpado sus impudicias, el desborde de poder de sus jefes, el cambio de rutas que marcaban los objetivos de su lucha, el nacimiento de una burocracia en su estamento que la torna tan impúdica como la burocracia que era motivo de sus luchas.
Pero ya están en el E.R.P., están en un torbellino, y como las aguas buscan un desnivel, éstos “revolucionarios” ruedan y llega un instante que no saben por qué y para qué, pero ruedan. No sería justo objetar la alimentación. Mis carceleros me alimentan bien. Creo que ellos piensan: “barriga llena, corazón contento”. Cuán distante esta mi pensamiento en prodigar alimentación a mi cuerpo para que como una vela no se extinga por falta de estearina. ¡Sin embargo, mi salud decrece, siento altibajos emocionales, insomnio, inapetencia, indisposiciones estomacales y una aguda cistitis. Mi pequeña celda con su inodoro portátil que me retiran a diario, la estrechez, la impotencia y esos ojos de capucha que me vigilan tras la reja crispan mis nervios.

“QUIERO MORIR DE PIE”
“Hago gimnasia moviendo mis brazos y piernas en flexiones interminables, pues quiero fatigarme. La fatiga me prodigará el sueño. A pesar de ello no puedo dormir y debo recurrir al carcelero para que me facilite un barbitúrico. Me entregan un Valium de 5 miligramos. Solamente con la ayuda de esta droga logro conciliar algunas horas de descanso con un sueño profundo y relajado.
En este mi retiro obligado medito que es necesario disponer de una profunda vida interior para sobreponerse a la desventura del cautiverio, de la soledad, de la angustia por el recuerdo de seres queridos sin llegar al extravío, a la enajenación. Busco fuerzas en mi espíritu azotado para superarme, para no quebrantarme, para no claudicar, para morir con Dios, que estos pervertidos sin fe apostrofan, pero también tengo lucidez para comprender que en algunos momentos los zumbidos que castigan mi cabeza me sumen en un estado de inconciencia y siento voces hablar de personas muy caras a mi corazón.
Calladamente rezo pidiendo a Dios que no me abandone en una locura humillante. Quiero morir como el quebracho que no entrega su figura de árbol rudo sin exigir el esfuerzo del hachero en prolongadas transpiraciones. Quiero morir como el quebracho, que al caer hace un ruido que es un alarido que estremece la tranquilidad del monte. Quiero morir de pie, invocando a Dios en mi familia, a la Patria en mi Ejército, a mi pueblo no contaminado con ideas empapadas en la disociación y en la sangre. ¡Oh, Dios misericordioso, te pido humildemente me concedas esta gracia! ¡Dad a mi espíritu tu protección generosa para que mi vida cese como la serena llama de una vela que se extingue!.
En mi calendario, donde marco los días tan amargos de mi cautiverio, hoy tiene para mí una significación muy especial. Me siento convulsionado, angustiado, una profunda pena oprime mi pecho. Me siento sumamente tensionado, nervioso. Mi mente se agita y parece percibir no sé qué conjunto de sensaciones extrasensoriales y me invade una desesperante intención de gritar, de llorar, de patear el tabique de mi celda, mientras los ojos vigilantes del joven de capucha siguen inquisidores mi movimiento nervioso en la estrechez de mi ratonera. Por la noche, de cuya llegada me entero por la hora oficial de Radio Rivadavia, ya que en esta cárcel subterránea la vida pasa sin día ni noche, sólo hay la luz de un mísero y precario tubo fluorescente, mis nervios no me permiten conciliar el sueño. En mi perseverante meditación he comprendido que el estado de paroxismo es producido por un hecho irreversible. Siento la laxitud de haber captado un mensaje de despedida de un ser muy querido. Quizá mi esposa, mi madre, mis hijos, mis hermanos. El desasosiego de mi incomunicación me lleva a una gran agitación, pero estoy seguro, convencido plenamente que un hecho luctuoso abate el seno de mi familia.
¡Es una prueba más de Dios, y yo la acepto!. Que negra noche cae sobre mi dolor y mi impotencia.

NAVIDAD Y AÑO NUEVO
Las fiestas navideñas son fiestas de hogar, donde la familia cristiana se reúne para memorar el nacimiento de Jesús en el humilde pesebre de Belén. Esas reuniones de familia con ecos de agradables villancicos constituyen un bagaje muy caro a la recordación de un cautivo caído en la crueldad de una estrecha mazmorra. Melancólicos recuerdos, lágrimas y una espera sin esperanza, mientras los ojos de avecilla negra que me observan están ausentes de todo calor de cánticos navideños. ¿Hijos de quien son estos seres? ¿Observan alguna tradición?
Son subversivos sin familia y sin fe. Su tradición es la sangre, su símbolo no la estrella de Belén sino la horrenda estrella roja de cinco puntas.
Pero Navidad pasa con una profunda pena en mi corazón y muy pronto el año nuevo, 1975, será quizás el año de mi desenlace. La despedida del año y el escuchar en la noche el ruido de cohetes me atormenta y me sume en una profunda depresión. Pienso en los míos, a quienes la llegada del año nuevo constituye la apertura de un nuevo año y un nuevo sendero sin esperanzas.
Estas dos fechas marcan etapas muy dolorosas y siento una depresión que me obnubila. Mi insomnio persiste y comprendo que mi estado emocional sufre alteraciones que se acrecientan. Creo en algunas oportunidades que pierdo el sentido y me sumerjo en una somnolencia que verdaderamente es un estado de verdadera inconciencia. Escucho gritos, voces y sirenas.
Este estado anímico tan especial pienso, es producto de un lento envenenamiento a que me someten mis captores. Son frecuentes mis trastornos estomacales: creo que ya estoy al borde del abismo.
El 4 de enero sorpresivamente sentí voces de mi hija, y salí en su búsqueda, y me encontré con tres hombres y una mujer joven que hablaban en una habitación. Les ví sus caras y la contracción de sus mejillas, su palidez ante el peligro que supone la presencia inusitada de un hombre cautivo que los encuentra desarmados. Lamentablemente mi estado de alucinación y mi salud quebrantada no me ayudan en la gresca que se origina. Pude pegar, rompí un vidrio, pero fui desvanecido por mis siniestros carceleros y cuando desperté me encontré maniatado de pies y manos en mi camastro. Así permanecí durante tres días en que con más severa vigilancia se me desataba para alimentarme y para usar mi inodoro portátil. Maniatado, dolorido por los golpes recibidos, me sentí afiebrado. Me brindan asistencia médica y luego de ese...

El relato se interrumpe en este punto. Poco después Larrabure sería torturado y asesinado.

El Articulo 7 del Estatuto de Roma de la Corte Penal Internacional establece:
Crímenes de lesa humanidad
1. A los efectos del presente Estatuto, se entenderá por “crimen de lesa humanidad” cualquiera de los actos siguientes cuando se cometa como parte de un ataque generalizado o sistemático contra una población civil y con conocimiento de dicho ataque: a) Asesinato;
b) Exterminio;
c) Esclavitud;
d) Deportación o traslado forzoso de población;
e) Encarcelación u otra privación grave de la libertad física en violación de normas fundamentales de derecho internacional;
f) Tortura;
g) Violación, esclavitud sexual, prostitución forzada, embarazo forzado, esterilización forzada o cualquier otra forma de violencia sexual de gravedad comparable;
h) Persecución de un grupo o colectividad con identidad propia fundada en motivos políticos, raciales, nacionales, étnicos, culturales, religiosos, de género definido en el párrafo 3, u otros motivos universalmente reconocidos como inaceptables con arreglo al derecho internacional, en conexión con cualquier acto mencionado en el presente párrafo o con cualquier crimen de la competencia de la Corte;
i) Desaparición forzada de personas;
j) El crimen de apartheid;
k) Otros actos inhumanos de carácter similar que causen intencionalmente grandes sufrimientos o atenten gravemente contra la integridad física o la salud mental o física.
2. A los efectos del párrafo 1:
a) Por “ataque contra una población civil” se entenderá una línea de conducta que implique la comisión múltiple de actos mencionados en el párrafo 1 contra una población civil, de conformidad con la política de un Estado o de una organización de cometer ese ataque o para promover esa política;
b) El “exterminio” comprenderá la imposición intencional de condiciones de vida, entre otras, la privación del acceso a alimentos o medicinas, entre otras, encaminadas a causar la destrucción de parte de una población;
c) Por “esclavitud” se entenderá el ejercicio de los atributos del derecho de propiedad sobre una persona, o de algunos de ellos, incluido el ejercicio de esos atributos en el tráfico de personas, en particular mujeres y niños;
d) Por “deportación o traslado forzoso de población” se entenderá el desplazamiento forzoso de las personas afectadas, por expulsión u otros actos coactivos, de la zona en que estén legítimamente presentes, sin motivos autorizados por el derecho internacional; 
e) Por “tortura” se entenderá causar intencionalmente dolor o sufrimientos graves, ya sean físicos o mentales, a una persona que el acusado tenga bajo su custodia o control; sin embargo, no se entenderá por tortura el dolor o los sufrimientos que se deriven únicamente de sanciones lícitas o que sean consecuencia normal o fortuita de ellas;
f) Por “embarazo forzado” se entenderá el confinamiento ilícito de una mujer a la que se ha dejado embarazada por la fuerza, con la intención de modificar la composición étnica de una población o de cometer otras violaciones graves del derecho internacional. En modo alguno se entenderá que esta definición afecta a las normas de derecho interno relativas al embarazo;
g) Por “persecución” se entenderá la privación intencional y grave de derechos fundamentales en contravención del derecho internacional en razón de la identidad del grupo o de la colectividad;
h) Por “el crimen de apartheid” se entenderán los actos inhumanos de carácter similar a los mencionados en el párrafo 1 cometidos en el contexto de un régimen institucionalizado de opresión y dominación sistemáticas de un grupo racial sobre uno o más grupos raciales y con la intención de mantener ese régimen;
i) Por “desaparición forzada de personas” se entenderá la aprehensión, la detención o el secuestro de personas por un Estado o una organización política, o con su autorización, apoyo o aquiescencia, seguido de la negativa a admitir tal privación de libertad o dar información sobre la suerte o el paradero de esas personas, con la intención de dejarlas fuera del amparo de la ley por un período prolongado.
3. A los efectos del presente Estatuto se entenderá que el término “género” se refiere a los dos sexos, masculino y femenino, en el contexto de la sociedad. El término “género” no tendrá más acepción que la que antecede.