"Escribid con amor, con corazón, lo que os alcance, lo que os antoje. Que eso será bueno en el fondo, aunque la forma sea incorrecta; será apasionado, aunque a veces sea inexacto; agradará al lector, aunque rabie Garcilaso; no se parecerá a lo de nadie; pero; bueno o malo, será vuestro, nadie os lo disputará; entonces habrá prosa, habrá poesía, habrá defectos, habrá belleza." DOMINGO F. SARMIENTO



viernes, 29 de mayo de 2009

"L’ALTRA ITALIA MINACCIATA"

Cosi intitola Giovanni Petrella Battista questo suo appello, dal Venezuela, al Governo italiano.
Con una valigetta di cartone allacciata con un fil di spago e con un fardello di valori umani e l’anima colma di speranze, molti italiani, specialmente del Mezzogiorno, sono partiti per il mondo e alcuni di loro sono arrivati in Venezuela, che già Cristoforo Colombo definì allora "Terra di grazia".
Noi apparteniamo ad un popolo obbediente alle leggi e rispettoso dello Stato Sovrano, in ogni nazione; appunto per questo chiediamo alle autorità statali lo stesso rispetto per noi e per i nostri discendenti.
Perciò, dopo molti decenni trascorsi a lavorare con la famiglia sempre a carico, dopo sforzi fisici ed economici, lacrime e sacrifici, moltissimi italiani oggi ci stanno rimettendo non solo economicamente, ma anche socialmente e politicamente, come qualsiasi altro cittadino del Venezuela.
Già da tempo, tutta la "grazia" del Venezuela quasi non esiste più. Nonostante alcune cose che il governo sta facendo bene -come nelle arti e nella cultura– nel Paese stanno affondando le radici "industrie distruttive", seminando elevati livelli di paura: l’industria del sequestro –che colpisce molti italiani– che ha per protagonisti malviventi (appoggiati); e l’industria dell’esproprio a quasi tutti italiani -sequestro di quasi tutto e di tutti, legalizzato– di cui è protagonista il governo nazionale.
Davanti a questa pericolante situazione ci domandiamo: "ma che fa il governo italiano? Perché se ne sta zitto zitto? Potrebbe anche emulare il Presidente della Spagna: quando il governo venezuelano stava "mettendo le mani addosso" ad una nota banca spagnola, il Señor Zapatero ha risposto per le rime: "staremmo molto attenti a come si svolgono le negoziazioni con la nostra banca con interessi spagnoli". E a quest’ora il governo venezuelano sta già pagando.
Quindi mi chiedo
–dice Giovanni Petrella Battista- il governo italiano, per caso, non può fare qualcosa di simile affinché gli italiani (molti dei quali sono pugliesi) siano risarciti al giusto prezzo per le imprese espropriate?
La storia non finirà a breve: tutti noi abbiamo paura, viviamo istericamente o sotto stress (come volete) collettivo e permanente. Tutti ci domandiamo se si può vivere così in un Paese cui, come emigranti, abbiamo volontariamente offerto la migliore parte della nostra vita: la gioventù.
Spero, a nome di tutti gli italiani che vivono nel Venezuela e specialmente a nome degli imprenditori disastrati legalmente, che questo lacerante messaggio possa arrivare, attraverso la stampa, al Consiglio dei Ministri e al Presidente Silvio Berlusconi.
Spero che quanto prima intervenga in favore di un maggior rispetto per la comunità italiana da parte del Venezuela, nazione "senza grazia" come direbbe oggi Cristoforo Colombo.

E finisce il Presidente dell’Associazione Pugliese dello Zulia: Sappiamo benissimo che quello che gli italiani fanno dentro e fuori l’Italia è lavorare, lavorare, lavorare. Per questo portano progresso ovunque.
A noi, italo-argentini che viviamo in Argentina, ci tocca da vicino questo appello del Petrella Battista e ben potremmo farlo estensivo al governo argentino dopo l'espropriazione della Ternium Sidor, appartenente al Gruppo “Techint” della italianissima famiglia di Agostino Rocca, nel Venezuela.

jueves, 28 de mayo de 2009

IL PORTALE LOMBARDI NEL MONDO COMPIE 5 ANNI INTERVISTA ALL'EDITORE DANIELE MARCONCINI

1) Partiamo da una curiosità: come è nata l’idea di questo strumento?
La necessità di avere uno strumento informatico che mettesse in rete le comunità lombarde nel mondo, era stata inserita tra le priorità della Regione Lombardia già dieci anni fa. L’obbiettivo strategico era quello di fornire alle nostre comunità, oltre che uno strumento giornalistico-informativo, un mezzo di confronto e di identità storico–culturale e un punto di riferimento al fine di attuare un dialogo diretto con l’istituzione stessa. Agli inizi del 2004, l’Associazione dei Mantovani nel Mondo elaborò una prima proposta operativa di Portale dei Lombardi nel Mondo,grazie al contributo decisivo delle Associazioni e dei Circoli Lombardi all’Estero che misero a disposizione in forma volontaria e gratuita giornalisti e tecnici, oltre che naturalmente idee e progettualità. Potendo contare in forma volontaria su un primo gruppo di collaboratori e di corrispondenti residenti all’estero, diretti dal giornalista parlamentare Luciano Ghelfi e coordinati dal caporedattore Fabio Veneri, si riuscì così a dar vita al primo network giornalistico lombardo nel mondo basato su un software “open source”e su una struttura elaborata dall’informatico Vanni Vincenzi.
2) Quali sono i momenti più significativi che sottolinea di questi cinque anni di attività?
Il primo atto veramente significativo è stata la decisione dell’Ufficio di Presidenza del Consiglio Regionale di creare una collaborazione del proprio Ufficio Stampa con il Portale dei Lombardi nel Mondo e successivamente,dopo un periodo sperimentale, il riconoscimento del Sito come “Portale di interesse regionale”. Ritengo di fondamentale importanza la creazione di una banca dati online per le ricerche familiari, in collaborazione con l’Archivio di Stato di Mantova, e l’apertura del “Circolo Storico della Stampa Lombarda”, un’area dove inserire documentazione e materiale bibliografico sull’emigrazione lombarda nell’ambito di un progetto più ampio per la realizzazione di un Centro Documentazione regionale.
3) Quale le pare sia l’interesse suscitato dallo strumento in questi anni, tanto da un punto di vista giornalistico quanto istituzionale?
Grazie ad una continua evoluzione tecnologica e alla qualità della sua rete giornalistica nel 2008 l’attività il Sito www.lombardinelmondo.org, si è confermato uno strumento di successo con oltre il 50% di aumento di visite rispetto al 2007 e con Aprile 2008 che ha registrato un picco di traffico quasi triplicato (177% di incremento), a fronte di un exploit di accessi dell’Area dedicata alle elezioni politiche in Italia con la presentazione dei candidati di origine lombarda. Inoltre a conferma dell’interesse internazionale acquisito del Portale dei Lombardi nel Mondo, è stato verificato che ben il 72% dei quasi 300 mila accessi provengono da ben 50 paesi di tutto il mondo, mentre “solo” il 28% vengono dall’Italia. Le Aree istituzionali visitate rappresentano un ottimo 25% sul totale delle visite. Da segnalare un boom di visite nell’Area del Consiglio Regionale con un incremento del 120% rispetto al 2007. Sempre a conferma del forte legame delle nostre comunità. Buono anche l’ascolto del notiziario radio Lombardia News, in collaborazione con Radio Base Mantova.
4) Come si colloca il Portale all’interno del più generale panorama dei mezzi di comunicazione per gli italiani all’estero? Quali sono le specificità?
Il Portale dei Lombardi nel Mondo è l’unico esempio in Italia di collaborazione giornalistico-istituzionale tra una Regione e l’Associazionismo in cui con un finanziamento pubblico molto contenuto, viene svolta sia un’informazione giornalistico-istituzionale a favore delle nostre comunità all’estero e sia una informazione di ritorno e di approfondimento sulle nostre comunità all’estero.
5) Che sviluppi prevede per il futuro del Portale?
Ritengo di fondamentale importanza la possibilità, attraverso il Portale, di avere un continuo aggiornamento sulla cosiddetta nuova “mobilità lombarda nel mondo”, formata sia da coloro che si sono stabiliti all’estero recentemente e permanentemente e sia da coloro che all'estero si recano temporaneamente, ancorché per periodi prolungati: dipendenti di imprese, tecnici e dirigenti, studenti e ricercatori, liberi professionisti, imprenditori e lavoratori autonomi. In secondo luogo il Portale può assolvere all’importantissimo ruolo di promuovere le opportunità che la Regione Lombardia offre (con particolare riferimento alle nuove generazioni di giovani italiani all’estero) e alla pubblicizzazioni di eventi di importanza internazionale a cominciare dall’Expò di Milano previsto nel 2015.

miércoles, 27 de mayo de 2009

LEZIONE DI TANGO

Marilena Dolci, professoressa mantovana, ci lascia in questa sua bellissima relazione le sue impressioni sul romanzo della scrittrice Elsa Osorio sul cosidetto "messaggero dell'anima del sobborgo": il Tango argentino.

Il romanzo di Elsa Osorio mi ha lasciato una profonda impressione per due motivi: da una parte due personaggi contemporanei, Ana e Luis, intraprendono la stessa ricerca sui propri antenati, che sto cercando di compiere io, in secondo luogo la scrittrice ripercorre la storia dell’Argentina sino al 2001, soffermandosi tuttavia soprattutto sull’età d’oro del paese, cioè il periodo che va dalla fine dell’Ottocento al 1930, quando l’Argentina era ricca e per questo attirava tanti emigranti.
Il titolo in italiano non è molto centrato, perché non si parla di lezioni di tango, ma dell’importanza fondamentale che questo ballo ha per l’identità nazionale di quel paese, al punto che il “Tango” interviene spesso nella storia e parla in prima persona.
In spagnolo il titolo è “Cielo de Tango”, la scrittrice infatti immagina che gli uomini e le donne, che sono anche i personaggi del suo romanzo e che in vita erano appassionati ballerini e avevano dedicato se stessi a questo ballo, vivano in un paradiso del tango, dall’alto del quale guardano e commentano le vicende dei propri discendenti.
Sinceramente non pensavo che il tango fosse così fondamentale per gli argentini, né immaginavo che all’inizio fosse considerato un ballo moralmente riprovevole, perché nato tra le puttane e perché esprimeva con i movimenti dei corpi allacciati una grande sensualità.
L’autrice ne fa la storia, ci racconta di come sia passato in Francia, di come si sia modificato nel tempo, ci parla degli artisti che l’hanno suonato, cantato e ballato. Il tango sembra esprimere l’anima più intima e segreta di un popolo, la sua parte migliore e più vera.
La struttura del romanzo è molto complessa perché all’improvviso cambiano i narratori e i tempi dell’azione: entrambi si possono dedurre solo dal contesto, dopo che si è letta qualche riga di ogni parte in cui è diviso il romanzo.
E’ una storia di coppie, di amori passionali, ai quali nessun ostacolo può opporsi e che, anche quando non si realizzano in un’unione, durano tutta la vita, come è il caso di Inés e Miguel.
Nella prima parte del romanzo domina la storia di Vicente e Carlota, lui ricco e non più giovane possidente, lei giovanissima figlia di una mêtresse. Tra alti e bassi, abbandoni e riconciliazioni i due scopriranno solo alla fine di volersi bene, ma a quel punto Vicente, per rispetto della moglie ormai morta non vorrà più frequentarla. Vicente aveva sposato Inés Lasalle che tuttavia amava Miguel, un italiano suonatore di organetti, ma la disparità sociale tra loro era eccessiva: la famiglia Lasalle non permise il matrimonio. Sua figlia Mercedes invece non farà come la madre, ma si ribellerà al volere del padre, andando a convivere con Jordi, un povero insegnante di musica. Questa unione tuttavia sarà infelice, perché Jordi si rivelerà un alcolizzato, allora Mercedes avrà il coraggio di lasciarlo e troverà un nuovo amore in Roberto, che sposerà. Questa vicenda non è molto convincente, perché Jordi sembra all’inizio una bravissima persona e poi all’improvviso ci viene presentato come uno che beve e maltratta la sua donna.
Un’altra storia d’amore è quella di Asunción, che serviva in casa Lasalle, e dell’Oriental, appartenente alla malavita ma molto affascinante e ballerino insuperabile di tango. Dopo essersi impossessato del cuore di Asunción, l’abbandona in prossimità del parto di lei.
C’è un’ulteriore storia d’amore, che non arriverà mai a concretizzarsi: è quella tra Asunción ed Hernán, fratello di Inés. La solita differenza di classe li separerà, comunque Hernán è l’unico uomo positivo del romanzo: libero da pregiudizi, disinteressato al denaro, bello e divertente, ballerino di razza, non potrà tuttavia essere mai del tutto felice forse proprio per questo suo amore “mancato”.
Nella seconda parte in primo piano c’è la generazione successiva, in particolare Juan Montes e Rosa: l’uno musicista, l’altra cantante. Anche in questo caso l’amore, pur invincibile, riesce a farsi strada a fatica, perché Rosa è una donna indipendente, che lotta e rischia per i compagni lavoratori. Deve allontanarsi per questi motivi dall’Argentina, ma poi ritorna con l’idea fissa di diventare una cantante e ci riuscirà. Anche Juan non ha avuto una vita facile: abbandonato alla nascita dal padre, figlio di Asunción, studia musica e insieme lavora, infine suonerà per professione e diventerà un famoso compositore di tanghi.
Francisco, figlio di Inés e Vicente, è anche lui vittima del modo di pensare della sua famiglia: ha portato dalla Francia a vivere con lui una ragazza, che egli ama tantissimo, riamato: Yvonne, ma il padre fa di tutto per staccarlo da lei. Alla fine egli decide di sposare un’altra ed Yvonne, il giorno del matrimonio, lo uccide.
Questo romanzo è anche una storia di classi sociali. Nell’età dell’oro da una parte c’erano coloro che si ritenevano originari dell’Argentina: famiglie ricchissime, come i Lasalle, proprietarie di terre, che vendevano il bestiame all’Europa e agli Stati Uniti, chiuse in un aristocratico isolamento, che negavano ai propri figli la libertà d’amare chi volevano. Dall’altra parte c’erano gli emigranti, gli operai, impegnati nelle lotte sindacali per un salario migliore. Ci sono vari accenni alla democrazia spesso traballante, ai colpi di stato frequenti, alle repressioni contro gli scioperi, anche, ma di sfuggita, ai desaparecidos e alle manifestazioni che accompagnarono il crollo economico dell’Argentina nel 2001.

Prof.ssa Marilena Dolci
Mantova

sábado, 16 de mayo de 2009

STORIA DELLE SCUOLE ITALIANE IN ARGENTINA

L’Università di Buenos Aires (UBA) aveva iniziato la sua vita con le scuole dei dottori Pietro Carta Molina, Ottavio Fabrizio Mossotti, Carlo Ferraris, Pietro De Angelis, Pellegrino Strobel, Emilio Rossetti, Bernardino Speluzzi, e Giovanni Ramorino tra l’altro, la cui opera feconda è stata consacrata dalla storia.
Vediamo ora cosa succedeva con l’insegnamento elementare che ha avuto una parte importante nello sviluppo intellettuale dei futuri cittadini di questo paese.
Chi fu il primo maestro italiano di scuola che insegnò in Argentina?
Chi fu il primo apostolo della civiltà in questo paese?
Secondo i dati ricavati dall’Archivio Generale della Nazione (Libro I Acuerdos, parte I, pag. 149), sarebbe stato un tale Francesco de Vittoria, il quale il 1 agosto 1605 inoltrò domanda all’amministrazione di Buenos Aires per essere ammesso all’insegnamento elementare “con obbligazione di dare lezioni mediante la retribuzione di 1 $ per i bambini che imparassero a leggere únicamente e di 2 $ per quelli che imparassero a scrivere e fare conti”.
La domanda venne accettata. Questo umile maestro elementare italiano ha preceduto di 220 anni i grandi esponenti della nostra cultura ed è doveroso ricordarlo come il primo maestro italiano in Argentina.
La missione educatrice dei maestri italiani raggiunge il massimo splendore dal 1876 con i Padri Salesiani dell’Opera Don Bosco.
A quell’epoca, questa benefica istituzione possedeva già in ogni parte della república scuole d’insegnamento primario, secondario, superiore, scuole d’arti e mestieri, colonie agricole e stampava un’orma in tutti i rami del sapere e delle industria.
Ecco alcuni loro: Rev. Giovanni Cagliero (più tardi Vescovo e Cardinale); Rev. Domenico Tomati; Rev. Giovanni Baccino; Rev. Giovanni Allavena; Rev. Giuseppe Caproglio; Rev. Giuseppe Vespignani; Rev. Valentino Cassini; Rev. Pietro Rosmini; Rev. Michele Tonelli; Rev. Giuseppe Longo; Rev. Giovanni Pagliere; Rev. Giuseppe Fognaro e molti altri.
Nel 1875 l’Opera Don Bosco imparte la scinza gratuita, veste e sfama oltre 30.000 giovani argentini, le sue scuole d’arti e mestieri creano eserciti di operai abili ed onesti che nel nome delgrande torinese gettano le basi della futura prosperità argentina.
Sul finiré del XIXmo. secolo e l’inizio del XXmo., le scuole di lingua italiana e le istituzioni parascolastiche raggiungono uno sviluppo sorprendente per merito della “Pro Schola” e della “Dante Alighieri”.
Secondo lo storico Amilcare Bresso, nella decade del ’30, la Direzione Generale degli Italiani all’Estero rompiva la “tradizionale apatía” dei rappresentanti consolari in loco e la lentezza burocratica del passato anticipando l’invio del materiale didattico necessario all’insegnamento italiano.
Il Ministero degli Affari Esteri tra 1930 e 1932 pubblica le cifre statistiche, sull’Annuario delle Scuole Italiane all’Estero, mettendo a confronto gli Stati Uniti e la Repubblica Argentina.
Risulta che negli USA, con 110.000.000 di abitanti di cui 2.500.000 erano italiani, funzionavano 135 scuole italiane con circa 30.000 iscritti. Cioè, l’1,20% della popolazione italiana residente negli Stati Uniti.
Mentre in Argentina, con 12.000.000 di abitanti di cui 1.500.000 erano italiani, funzionavano 130 scuole italiane con circa 22.000 iscritti.
Ciò significa un 1,46% della popolazione italiana residente nella Repubblica Argentina.
Dalla tavola grafica n° 1 (foto), dove si fissano in cifre i confronti, risulta in forma chiara e inequivocabile che l’italianità in Argentina manteneva un primato indiscuso e quindi, l’influenza italiana in questo Paese era destinata ad avere una parte primaria nei confronti di altri centri d’immigrazione.
Finqui un’altra testimonianza che dimostra palesemente che l’Argentina fu, è, nonchè sara, il Paese più italiano dopo l’Italia.

miércoles, 13 de mayo de 2009

GLI APOSTOLI ITALIANI DELLA RIVOLUZIONE DEL MAGGIO 1810

Come si è detto nella precedente puntata, dall’epoca della scoperta dell’America gli spagnoli non videro di buon occhio la presenza di stranieri nel Rio de la Plata, tanto meno di italiani. In quella tappa della colonizzazione ebbero bisogno di molti marinai italiani per poter avanzare in tutto il territorio del Sudamerica.
Secondo lo storico Amilcare Bresso, nel 1804 Buenos Aires comincia ad avere la fisionomia di una colonia organizzata e difesa, con garanzie per i suoi abitanti. Nel primo Censimento, che si fece tra gli anni 1804 e 1807, risultavano 96 italiani, con nomi nuovi. Tra loro, armaiuoli, armatori, muratori, commercianti, falegnami, calzolai, barbieri, industriali, agricoltori, scultori, pittori, medici, avvocati e scrittori.
Tutti questi italiani svolsero una funzione importante per lo sviluppo del Vicereame prima e dopo della Repubblica nascente. In questo capitolo parleremo di due di loro.
Antonio Luigi Beruti ebbe un ruolo importantissimo negli avvenimenti precedenti alla liberazione dallo iogo spagnuolo che culminò nei moti del 23, 24 e 25 maggio 1810. Era figlio di Paolo Emanuele Beruti nato a Cadice il 21 luglio 1727 a sua volta figlio legittimo di Giovanni Battista Beruti e di Maria Teresa Odo. Giovanni Battista Beruti era nato a Finalborgo in Provincia di Genova, il 15 dicembre 1693 da Santo Beruti, militare del Presidio di Finalborgo, e da Maria Maddalena Rinaldo.
Al Cabildo Abierto del 22 maggio votò per la dimissione del ViceRe e chiese la rinuncia della Giunta Reale proponendo la lista del primo governo patriottico che il giorno 25 risulterebbe trionfante. Un mese dopo venne nominato tenente colonnello del Reggimento “América”, creato dalla Prima Giunta di Governo. Seguace di Mariano Moreno, fu fedele agli ideali anche dopo la misteriosa scomparsa in altomare del Segretario della Giunta. Ecco perchè partecipava alle riunioni del Caffè di Marcos dove man mano cresceva l’opposizione al nucleo “saavedrista” di essa.
Il 5 e 6 aprile 1811, sapendo di questi moti, il Colonello Saavedra ed i suoi seguaci cacciano via dal governo tutti gli oppositori. Azcuénaga, Vieytes e Rodríguez Peña dovettero dimettersi ed andare in esilio e, assieme a loro, membri attivi della Società Patriottica come French, Beruti, Donado e Posadas.
Il 13 marzo 1817, Bernardo O'Higgins -da parte del Generale Jose de San Martín- gli ordinò di passare prima a Mendoza e poi a Buenos Aires. Purtroppo non fu possibile rintracciare le sue spoglie che furono perse. Sua sposa, Mercedes Ortiz, fu una delle donne che, a Mendoza, accompagnando Remedios Escalada in San Martin, donò molti suoi gioielli per la Campagna della liberazione americana.
Emanuele Belgrano, nome completo Manuel José Joaquín del Sagrado Corazón de Jesús Belgrano y Peri, nacque a Buenos Aires il 3 giugno 1770.
Suo padre, Domenico Belgrano, era nato ad Oneglia (Porto Maurizio) in Provincia di Imperia, nell’anno 1709.
Anche se giornalista e laureato in giurisprudenza, scrisse con la sua spada una delle pagine più belle dell’indipendenza argentina e persino creò -nel 1812- la bandiera bianco-azzurra di questa nazione.
A capo dell'esercito delle Province Unite del Rio de la Plata conseguì nel 1813 la vittoria nelle battaglie di Tucumán e di Salta. Si batté contro la secessione dalla federazione dell'Uruguay e del Paraguay. Fu sostenitore in politica dell'autonomia e della laicità dello Stato nei confronti della Chiesa e in economia del sistema liberistico.
Nel 1816 parteciperà attivamente al Congresso di Tucuman e il 20 giugno 1820 morirà in una Buenos Aires colpita dalla guerra civile in assoluta povertà

miércoles, 6 de mayo de 2009

SULLE TRACCE DEI MARINAI ITALIANI NEL RIO DE LA PLATA

All'amico Raul Zimmermann Valle, imprenditore di origine italo-tedesca, piace moltissimo la cultura e la storia universale specie quella che coinvolge gli italiani, forse per il sangue materno che gli scorre nelle vene.
Per motivi di lavoro, di solito si reca a Buenos Aires e quando trova qualche tempo libero si tuffa in vecchie librerie ed antiquariati del famoso quartiere San Telmo alla Capitale dello Stato.
Spesso mi regala vecchi testi e riviste italiane. Poco fa mi ha portato un libro molto interessante intitolato “Il lavoro e il pensiero italiano nella Repubblica Argentina”, di Amilcare Bresso.
Non solo l’ho letto, ho divorato quel testo con grande fame di conoscere sempre di più l’attività degli italiani nel Rio de la Plata.
Benchè il libro sia stato curato dalla Segreteria Generale dei Fasci Italiani all’Estero e stampato dalle Officine Grafiche A. Mondadori di Verona nel 1933, l’autore dipinge con chiarezza i contributi fatti dagli italiani recati in queste terre sin dalla scoperta dell’America.
Vedremo chi erano e cosa avevano fatto navigatori e colonizzatori italiani al servizio della Corona di Spagna.
Sebbene non giunse di persona in queste terre, ci vuole ricordare che la scoperta dell’Indie Occidentali la fece un marinaio italiano, di origine genovese, Cristoforo Colombo, nel 1492.
Da quel momento e fino alla fondazione di Buenos Aires -per opera di Juan de Garay nel 1580- molti furono gli italiani che fecero parte degli equipaggi delle navi della flotta coloniale spagnola.
Ciò non piaceva molto agli spagnoli, anzi, non volevano che un straniero fosse piloto di navigazione ma le difficoltà di trovare buone marinai fece si che cambiassero opinione.
Da documenti indagati dall’autore risulta che, all’epoca, i nomi si componevano di due elementi: il nome di battesimo seguito da un aggettivo che si riferiva per lo più alla regione od al paese di nascita dei marinai. Ecco alcuni esempi anche curiosi: Bartolome Garcia Ginoves, Franceschin di Firenze, Giov. Batt. di Pastene e cosi via.
Il navigante vicentino, Francesco Antonio Pigafetta, storiografo della famosa spedizione condotta del celebre piloto portoghese Hernando de Magallanes, partita da Siviglia il 1 agosto e da Sanlucar il 27 settembre 1519, non dimentica nelle sue relazioni i suoi connazionali che appartennero agli equipaggi delle 5 navi comandate da Magallanes e che ebbero una parte importantissima nella scoperta delle coste argentine.
Sulla Nao Trinidad vi erano Gio. Batt. di Pozorol (Polcevera); De Cestri (Sestri); il contramaestro Francesco Albo; maestro Antonio “Genoves”, naturale di Recco; Leone Pancaldo da Saona (Savona) di cui ci occuperemo dopo; Giovanni Ginoves, marinaio da Sanremo; Martini Ginoves de Cestri (Sestri); Tommaso di Natia, marinaio di Sestri; Francesco Antonio de “Plegafetis” Pigafetta, lo storiografo e Giorgio Morisco.
Sulla Nao San Antonio, Iacomo de Mecina (Messina); Simon de Asio (Ascio o Alassio); Columbarzo da Bologna; Lucca de Mecina (Messina) e Giovanni Ginoves (Savona).
Nella Nao Concepcion vi erano i seguenti italiani: Alonso Coto (Genova); Martino de Judicibus; Merino e Genovese.
Sulla Nao Victoria, Antonio Salomon de Trapana (Trapani); Michele Beneciano de Bresa (Brescia); Nicola Ginoves da Genova; Nicolao de Napoles; Nicolao de Capua; Benito Genoves de Arvenga (Albenga); Giovanni Griego da Napoli e Antonio Bresa (Varazze).
Sulla Nao Santiago vi erano imbarcati il maestro Baltasar Ginoves, de la Rivera de Genoa; Giovanni Garcia de Genova ed il marinaio Agustin de Saona.
Purtroppo le navi Santiago, San Antonio e Concepcion affondarono morendo trágicamente molti questi italiani.
Leone Pancaldo fu Procuratore di Diego Colombo in Savona e pare che sia stato l’autore della rotta di viaggio de Magallanes e morì nel 1540 amareggiato dopo aver abbandonato la sua Santa Maria nel Riachuelo di Buenos Aires e dopo aver visto la sua rica merce venduta a prezzi irrisori.
Dopo queste vicende molti italiani rimassero nel Rio de la Plata e nel maggio 1569 Francisco Ortiz de Vergara consegnava un elenco di 76 conquistatori non spagnuoli dei quali 21 di diverse nazionalità ed il resto italiani, cioè 55.
Ecco perche siamo in condizione di dire che la colonizzazione del Rio de la Plata non c’è stata solo spagnuola ma bensì cosmopolita con un elevata percentuale di italiani.
Abbiamo dunque visto come ai numerosi italiani conquistatori piaceva prendere il nome delle loro provincia o città natie formando nell’insieme una completa nomenclatura dei porti e delle nostre località di terra ferma.
Nel 1580, data della seconda fondazione di Buenos Aires per opera di Juan de Garay, moltissimi sono gli italiani che compongono il nucleo dei fondatori di Buenos Aires nonche di Asuncion del Paraguai.
Questa partecipazione veniva retribuita con pezzi di terra con cui si favoriva ad ogni conquistatore.
Occorre a questo punto citare Joan Dominguez Palermo, ceciliano (siciliano), che arrivò all’età di 20 anni e sposò la figlia di un conquistatore.
Lui era proprietario delle terre contigue a quelle di Suarez Maldonado, dal quale ha preso il nome il fiumiciattolo che le taglia, percui il nome del quartiere e parco più belli della Capitale dello Stato argentino lo prese dal suo proprietario italiano anzichè dalla creazione di Juan Manuel de Rosas.
Molto rápidamente abbiamo passato in rivista una schiera di umili eroi che hanno scritto un secolo di storia per l’America –scrive Bresso- ma quanti nomi d’italiani, che nessuno ha avuto interesse di ricordare, rimarranno ignorati nella storia dello sforzo anónimo di quella schiera ardimentosa che ha conquistato queste terre palmo a palmo per la civiltà, gettando le basi della futura grandeza dell’America.

domingo, 3 de mayo de 2009

AMOR DE OCTUBRE

Por Jorge Alberto Garrappa

Llego
después de la adolescencia.
En juventud,
amalgamando sus esencias.
Dosificando
pasión,comprensión, paciencia,
Vida organizada,
perseverancia, abstinencia,
Llantos, risas
combinados con frecuencia.
Proyectos fracasados
compartidas sus vivencias
Proyectos realizados
festejados con prudencia
Nuestros hijos
lo mejor de la existencia
Apenas nacen
nos desvela su presencia
Cuando crecen
nos desvela su ausencia
Sexo maduro,
con pocas intermitencias
Malhumor?
solo prueba de convivencia
Reproches?
basta la sola presencia
Escuela
de amor eterno de la pareja
Ejemplo
para nuestra descendencia
“Ya no sois dos, sino uno”
divina coincidencia
Amor sincero,
ni especulación ni conveniencia
Vino bueno
sorbo a sorbo, con paciencia

LA SILLA DE RUEDAS NO ES OBSTACULO PARA EL TALENTO

Angel Balzarino es un escritor, de origen piamontés, nacido el 4 de agosto de 1943 en Villa Trinidad (SF). Desde 1956 reside en Rafaela (SF). Ha recibido numerosas distinciones por su profusa actividad literaria. Ha sido Presidente de E.R.A. (Escritores Rafaelinos Agrupados).
Por su simplicidad, su humor sutil, su fuerza de voluntad y su convicción que “la razón reside en la pluma antes que en la espada”, como dijese alguna vez Honore de Balzac, Ángel Balzarino es un hombre fascinante y un gran amigo.
En mi portal no podía faltar entonces este reportaje que le hice a Angel, en mayo de 2005, para el Portale Giornalistico dei Lombardi nel Mondo para el cual trabajo desde 2004.
En la presentación de su ultimo libro de cuentos, “El hombre acechado”, el 3 de abril de 2009 en la Biblioteca del Centro Empleados de Comercio, tuve la sensación que Angel siempre tiene cosas interesantes que decir sobre su particular modo de escribir. A continuación la versión en castellano del reportaje publicado en italiano en el sitio www.lombardinelmondo.org

¿Angel, de que parte de Italia eran tus ancestros?
Mis abuelos paternos eran de Turín, piamonteses.

¿Cuántas obras has escrito?
En forma individual tengo publicados doce libros: nueve libros de cuentos y tres novelas. Además, varios de mis trabajos han sido incluidos en más de veinticinco antologías publicadas en la Argentina y en diversos países, como los Estados Unidos, México, España, República de Panamá y el Reino Unido.

¿Cuál de todas aprecias más?
Es difícil determinar eso. Cada obra tiene un significado especial, sobre todo mientras uno la imagina, proyecta y escribe. En el curso de este proceso, la obra que se encuentra en construcción es sin duda la más importante o la que uno quisiera que fuera mejor que todas las anteriores. Al ser publicada y quedar a disposición de los lectores, cada obra suele deparar distintos juicios y opiniones. En cuanto a reacciones favorables y que han lograba brindarme mayor beneplácito y gratificación, podría mencionar varios títulos: “El ordenanza”, “Rosa”, “El acecho”, “La visita del general”, “Concierto para violín y orquesta Op 61”, “Territorio de sombras y esplendor”.

En tu libro "Antes del primer grito", ya sea en el primer cuento ("Como viento huracanado"), como en el cuarto ("Antes del primer grito"), se percibe una atmósfera violenta que recuerda los años de la dictadura militar. ¿Es así?
Los dos cuentos pretenden reflejar algunos hechos que fueron bastante comunes o habituales durante la época de la última dictadura militar en nuestro país. Concretamente, el cuento “Como viento huracanado” surgió al escuchar por radio las declaraciones de una muchacha que trataba de saber su verdadera identidad y procuraba encontrar a miembros de su familia, ya que, al morir sus padres a manos de los militares, ella tenía apenas unos meses y había quedado a cargo de una familia extraña. En cambio el otro cuento, “Antes del primer grito”, no nació a raíz de un suceso determinado, sino que es la recreación literaria de una circunstancia reiterada en tiempos de la dictadura militar: la apropiación de los bebés que tenían las prisioneras embarazadas mientras se encontraban en prisión.

Has ganado veinticinco premios nacionales, ¿cuántos internacionales?
A nivel internacional, hasta ahora, han sido varias las distinciones recibidas por algunos de mis trabajos. Al respecto, lo que considero más destacable y me produce una profunda satisfacción, es el hecho de que estas distinciones, sin buscarlas ni esperarlas, llegaron de manera sorpresiva. Por obra del interés o méritos descubiertos por la lectura de mis cuentos, ya sea por los difundidos a través de las ediciones impresas en papel como por los que se encuentran en mi página personal (www.rafaela.com/balzarino) o en las numerosas revistas literarias que circulan por Internet. Así, mi cuento “Rosa” fue incluido en diversas antologías publicadas en los Estados Unidos: “Cuéntame: lecturas interactivas”, “Avanzando: gramática española y lectura” y “Realidades 3”. En estos casos, sin duda lo que constituye el mayor honor es participar en libros junto a escritores como Jorge Luís Borges, Octavio Paz, Guillermo Cabrera Infante y Ana María Matute. Algo similar ocurrió con otros cuentos: “El acecho” al ser incluido en el libro “Leer, especular, comunicar”, editado en el Reino Unido; “Prueba de hombre” en la antología “Narradores argentinos”, publicada en México; “Concierto para violín y orquesta Op 61” y “El hombre de negro” seleccionados para integrar publicaciones en la República de Panamá.

Llevas adelante una larga lucha por la eliminación de las barreras urbanísticas que hacen la vida más difícil a los discapacitados. Al respecto, pareces haberte transformado en el enemigo público número uno de las administraciones municipales.
Sin duda eliminar las barreras arquitectónicas y construir rampas para el acceso a las veredas y edificios constituyen los requisitos básicos y elementales para que los discapacitados motores puedan desplazarse con cierta facilidad por la ciudad. Y en este aspecto, lamentablemente, nuestra ciudad, Rafaela, cuenta con innumerables sitios que presentan obstáculos insalvables para los discapacitados. Tras afrontar en carne propia durante muchos años tales dificultades con un sentimiento de pasividad y aun de resignación, un día decidí, tal vez en un tardío gesto de rebeldía, tratar de modificar esta situación. A través de notas elevadas a las autoridades municipales y la publicación de cartas en los medios periodísticos locales. Si bien en los últimos tiempos se ha podido advertir la construcción de rampas en diversos lugares de la ciudad, merced a disposiciones establecidas en ordenanzas municipales, no deja de provocar cierto escozor comprobar que muchas de las rampas, por impericia o desconocimiento de quienes las construyen o colocan, no pueden ser utilizadas por los discapacitados en forma autónoma, sin requerir el servicio de terceras personas, lo cual lleva implícito un sesgo discriminatorio. En cuanto a la posibilidad de haberme transformado en el enemigo público número uno de las administraciones municipales, me tiene absolutamente sin cuidado si ello obedece al hecho de bregar para que la ciudad de Rafaela cuente con las estructuras acordes a las necesidades de los discapacitados. Más bien diría que, si las administraciones municipales lo creen así, resulta un privilegio y un honor.

El escrito intitulado "Centro de ayuda al suicida", ha desencadenado las más diversas opiniones. ¿Por qué has decidido publicar un cuento para criticar este servicio en lugar de ir a decírselo personalmente?
Efectivamente, “Centro de ayuda al suicida” es un cuento que ha provocado diversas opiniones. A favor, incluso de manera elogiosa, y también de molestia o reprobación. Con respecto a los juicios que trasuntan un tinte de furor o indignación, creo que tienen su origen en el hecho de considerar al texto de “Centro de ayuda al suicida” como un comentario o nota crítica sobre el servicio que presta la “Red de asistencia en crisis y prevención del suicido”, en lugar de juzgarlo como lo que es realmente: un cuento, una creación literaria, una obra de ficción que desarrolla una historia. Si mi propósito hubiera sido cuestionar o poner en duda la eficacia de la “Red de asistencia en crisis y prevención del suicidio”, lo habría manifestado a través de una carta o un llamado telefónico, por ejemplo. Soy simplemente un escritor que, al reflejar alguna experiencia personal, evocar figuras y episodios que han prevalecido en el curso de los años en el plano histórico o plasmar algo surgido puramente de la fantasía, procuro elaborar, por medio del cuento y la novela corta, una obra de arte. Del mejor modo posible. Alentaba ese único objetivo al escribir el cuento “Centro de ayuda al suicida”. Y creo que en este contexto debe ser valorado: por sus cualidades literarias, buenas o malas. Atribuirle cualquier otro sentido o finalidad, dependerá exclusivamente de cada lector.

¿Te gusta interpretar el rol de hombre controversial?
No tengo el objetivo de representar ese rol. Más bien me veo a veces, de manera natural e irrevocable, en la necesidad de sostener disputas por diversas cuestiones. Muestra de ello es lo expresado con referencia a las barreras arquitectónicas y las reacciones generadas por el cuento “Centro de ayuda al suicida”.

Digamos que la Argentina es un país cotidianamente generoso en temas de todo tipo, pero ¿dónde encuentras la fuente de inspiración para tus cuentos?
Los temas suelen provenir de diversas fuentes: un hecho cotidiano, algún vestigio de sueño, un episodio histórico o una vivencia personal. Y el género elegido siempre ha sido el cuento, aunque también suelo incursionar por la novela corta. No sé si me incliné naturalmente hacia el cuento o si éste, con su innato y fascinante atractivo, logró conquistarme desde que comencé a escribir. Pero realmente se trata del género que me brinda mayor comodidad y placer para expresar lo que deseo.

LIBROS PUBLICADOS:
Cuentos: “El hombre que tenía miedo” (1974), “Albertina lo llama, señor Proust” (1979), “La visita del general” (1981), “Las otras manos” (1987), “La casa y el exilio” (1994), “Hombres y hazañas” (1996), “Mariel entre nosotros” (1998), “Antes del primer grito” (2003) y “El hombre acechado” (2009).
Novelas: “Cenizas del roble” (1985), “Horizontes en el viento” (1989), “Territorio de sombras y esplendor” (1997).
ANTOLOGÍAS:
“De orilla a orilla” (1972), “Cuentistas provinciales” (1977), “40 cuentos breves argentinos - Siglo XX” (1977), “Cuentistas argentinos” (1980), “Antología literaria regional santafesina” (1983), “39 cuentos argentinos de vanguardia” (1985), “Nosotros contamos cuentos” (1987), “Santa Fe en la literatura” (1989), “Vº Centenario del Descubrimiento de América” (1992), “Antología cultural del litoral argentino” (1995), “Palabras rafaelinas” (1998), “Palabrabierta” (2000), “Primer Encuentro de Narrativa – Bialet Massé – Nacional” (2005), “Leer la Argentina” (2005).
LIBROS COMPARTIDOS:
Su cuento “Rosa” ha sido incluido en “Cuéntame: lecturas interactivas” (1990), “Avanzando: gramática española y lectura” (3ª Edición, 1994, 4ª Edición, 1998), y “Realidades 3” (2003), obras editadas en los Estados Unidos.
Otro cuento, “Prueba de hombre”, integra la antología “Narradores argentinos” (1998), publicada por la Revista “Cultura de Veracruz”, México.
El cuento “El acecho” fue incluido en el libro “Leer, especular, comunicar”, editado en 2002 por Advance Materials, del Reino Unido.
PREMIOS Y/O MENCIONES:
Entre las numerosas distinciones por su actividad literaria se pueden mencionar: Premio “Mateo Booz - 1968”, Primer Premio “Ciudad de Santa Fe - 1970”, Premio Nacional “ALPI - 1971”, Premio “Jorge Luis Borges - 1976”, Premio Anual por el “Bienio 1976-77” de la Asociación Santafesina de Escritores, Mención Especial en el género narrativa “Premio Alcides Greca- 1984” de la Subsecretaría de Cultura de la Provincia de Santa Fe, Premio “Fondo Editorial años 1986-1995-1996” de la Municipalidad de Rafaela, “Faja de Honor 1996 y 1998” de la Asociación Santafesina de Escritores.

domingo, 15 de marzo de 2009

FLIGLI D'ITALIA NEL MONDO... LA PATRIA VI RICHIAMA...!!! (1a. puntata)

Da sempre mi ha inquietato sapere come reagivano gli italiani residenti in Argentina rispetto alle guerre in cui l’Italia era stata coinvolta.
Ho appreso che la prima guerra in Etiopia (1895-1896), la guerra contro i turchi (1911-1912) e la Grande Guerra (1915-1918), contribuirono a rafforzare la solidarietà e l’identità tra gli italiani residenti in Argentina.
Nonostante qualche differenza, la maggioranza degli emigrati agiva in un clima di patriottismo sopportato dalle Società Italiane, dai Circoli regionali e dalla stampa della collettività che appoggiavano gli sforzi bellici italiani.
L’Italia intendeva posizionarsi meglio tra le potenze europee che concorrevano per allargare le loro dominazioni colonialistiche in Africa. Malgrado le limitazioni italiane, in quella corsa il Regno non poteva fermarsi altrimenti sarebbe rimasto fuori dai tavoli in cui venivano prese tutte le decisioni mondiali.
Ecco perchè la partecipazione dell’Italia nel 1915 a fianco dell’Intesa contro il nemico eterno, l’Austria-Ungheria, riuscì ad unire la maggioranza degli italiani residenti in Argentina.
Tra il 1915 e il 1918 i fondi raccolti in seno alla collettività italiana in Argentina raggiunsero oltre i 1.000.000.000 di Lire ed il numero di rimpatriati, sia da volontari che da chiamati alle armi, raggiunse i 32.430 (1)
A parte questo, la società argentina espresse simpatia agli ospiti italiani ed alla loro giusta causa per recuperare le terre irredenti. Alla fine anche gli argentini sapevano di questioni territoriali sia con il Cile che con il Regno Unito.
Forse per questo non si considerò mai nessuna manifestazione di patriottismo come pericolosa o contraria alla lealtà verso la patria adottiva. (2)
Nel 1933 Il Mattino d´Italia, quotidiano fascista degli italiani immigrati in Argentina, lanciò un referendum tra i suoi lettori. Dovevano rispondere alla domanda: “Cosa direste a Mussolini se aveste occasione di parlargli?”. Ebbe un successo straordinario. Risposero in 44.000. Per gli “italiani all’estero”, come lui stesso aveva voluto ribattezzare gli emigrati, il duce era l’uomo che aveva dato alla patria ormai lontana un ruolo nel mondo. Era un "padre dell’umanità", un "redentore", un "messia". (3)
Comunque la guerra italo-abissina degli anni 1935 e 1936 provocò divisioni politiche tra fascisti ed antifascisti, prima all’interno della collettività italiana e poi in tutta la società argentina. Il dibattito interno fece sì che le divisioni delle Società e Circoli regionali italiani fossero più frequenti.
I fascisti infatti, cercarono appoggio e solidarietà -verso la politica estera di Mussolini- presso personalità politiche e culturali dell’Argentina come Arturo Rossi, medico chirurgo dell’Ospedale Italiano di Buenos Aires e direttore dell’Asociación Argentina de Biotipología, Eugenesia y Medicina Social, che creò nel 1935 un Comitato Pro-Italia per raccogliere firme degli intellettuali contro le punizioni economiche all’Italia. Di fatto, a Ginevra l’Argentina aveva votato contro la posizione dell’Italia.
Altri comitati si aprirono ad altre città argentine, appoggiati dalle autorità locali, e nel dicembre del 1935 venne organizzata la Settimana dell’Italia a Buenos Aires a sostegno della politica africana del regime. Questi comitati raggiunsero le 400.000 firme e l’Associazione Patriottica Italiana (API) organizzò l’invio di alimenti, la riscossione dei soldi, le Giornate della fede ed i Giorni della catena affinché i connazionali dessero in dono gli anelli matrimoniali e le catenine d’oro. Anche la Camera di Commercio portegna organizzò una riscossione di fondi per comprare lingotti d’oro che poi furono consegnati all’Ambasciata.
Malgrado le divisioni interne, anche stavolta oltre 700 nostri connazionali vollero rientrare in Patria come volontari. Dal porto di Buenos Aires partirono quattro contingenti di volontari durante i mesi di ottobre e novembre. Il viaggio fu fatto con la nave Augustus il 1° ottobre, con l’Oceania il giorno 11 e con il Conte Grande il 18. Il quarto contingente partì il 19 novembre una volta che l’Augustus fece rientro dall’Europa.
Anche la Chiesa era coinvolta nel conflitto africano; Don Orione, sacerdote missionario, chiese la benedizione divina per la guerra coloniale, il sacerdote Onorato Amendola de Tebaidi (figlio di un colonnello italiano morto nel 1915 e di Edwige Tebaidi), nato a Pesaro il 19 febbraio 1901, partì con la famiglia per l’America nel 1924. Due anni più tardi fu ordinato sacerdote nell’arcidiocesi di La Plata. Poi si iscrisse nel Fascio di Bahía Blanca. Fu economo, parroco e Cappellano Vicario. Contemporaneamente ebbe l'incarico di professore di italiano e filosofia all'Università nazionale. Nel 1931 fondò l'associazione Goliárdica de Artístas y Periodístas. Nel 1934 fu delegato e oratore durante il XXXII Congreso Eucarístico Internacional di Buenos Aires. Lui accompagnava i volontari che salpavano verso l’Africa come aspirante a cappellano e giornalista (4)
Tra gli avversari, il giornale antifascista L’Italia del Popolo, che il 14 luglio 1935 invitava a una mobilitazione anti-bellicista e alla creazione di un comitato contro la guerra in Abissinia presieduto da Nicola Cilla a cui aderivano associazioni italiane antifasciste.
L’accanita pirotecnia verbale continuò fino all’entrata in combattimento della Legione Parini di cui facevano parte i volontari americani, allora L’Italia del Popolo si fermò improvvisamente e le cronache acquisirono un tono più oggettivo e il 6 maggio intitolava “La guerra è finita! Mussolini annuncia l’immediato ristabilimento della pace”.
Per strada gli italiani festeggiavano la vittoria africana e l’equazione Fascismo=Patria sembrava impadronirsi della complessiva collettività in Argentina.
La guerra civile spagnola e la partecipazione delle diverse potenze nel nuovo conflitto divenne una palese realtà e l’invio di truppe da parte di Mussolini (Corpo Truppe Volontarie italiane), riaccese la polemica ma stavolta anche gli antifascisti ebbero la possibilità di riscuotere soldi e reclutare volontari per arruolarsi nelle Brigate Internazionali che marciavano a lottare contro le forze Franchiste ed alleate. Il primo, Candido Testa, giunse a Barcellona e creò il Battaglione della morte (5).
Questo conflitto però non solo mise a confronto gli italiani ma anche tutta la società argentina, ormai composta da una nutrita collettività spagnola. Comunque la guerra di Spagna offrì ai fascisti italiani l’occasione di tenersi più stretti ai nazionalisti argentini.
Appena finito il conflitto spagnolo, scoppiò il Secondo Conflitto Mondiale e l’Italia entrò nell’asse Roma-Berlino-Tokio.
L’Italia del Popolo e le Associazioni schierate nell’antifascismo, che ora sottolineavano il valore militare dei soldati italiani nei confronti dei tedeschi, decisero di abbandonare la dura critica e, il direttore del giornale Vittorio Mosca, scrisse: “L’Italia del Popolo, giornale italiano, non ammaina la sua bandiera di libertà e democrazia ma neppure dimentica che sono i nostri fratelli a morire sul fronte di battaglia”.(6)
Sebbene non si verificarono vittorie italiane di successo -fino alla caduta del Duce nel 1943 e la costituzione della Repubblica Sociale Italiana- la collettività italiana rimase come suggellata in attesa dello snodamento della situazione bellica.
Ancora una volta l’equazione Patria=Fascismo sembrava funzionare grazie alla condanna di Badoglio, ai bombardamenti alleati su città aperte, ai crimini portati avanti dalle forze di occupazione.
Nell’Argentina di Farrell e Perón le nostre aspirazioni e la nostra fede trovano la comprensione più cordiale e la corrispondenza più fraterna. (7)
Per i fascisti di Argentina, come Virginio Gayda, l’Italia entrò in guerra contro le ingiustizie della vittoria mutilata di Versailles e tutti gli italiani, senza escludere nessuno, devono avere coscienza della loro responsabilità perché la Patria si deve servire ad ogni momento e ad ogni posto e il tempo e la distanza non contano niente, perché ogni arma è buona per combattere. (8)

(1)Incisa di Camerana 1998: 388
(2)Franzina 2000: 70
(3)La favola argentina di Mussolini – Repubblica – 24/04/2006.
(4)Capizzano 2005.
(5)L’Italia del Popolo - 05/1/1937.
(6)L’Italia del Popolo - 11/6/1940.
(7)La Patria degli Italiani – giugno 1944.
(8)La Patria degli Italiani - marzo 1941.

FIGLI D'ITALIA NEL MONDO... LA PATRIA VI RICHIAMA...!!! (2a. puntata)

Da uno studio di Vito Zita, ho appreso che a Roma il 6 agosto 1935 poco meno di un mese prima dell’inizio delle operazioni in Africa, venne rilasciato un comunicato militare che, tra le altre cose, informava: “Si stabilisce la formazione di una sesta Divisione di Camicie Nere, costituita da volontari italiani residenti all’estero e con battaglioni composti da mutilati, ex combattenti e volontari ex arditi della Grande Guerra. Questa Divisione si chiamerà Tevere e sarà comandata dal generale Boscardi”.
Dal comunicato dello Stato Maggiore possiamo interpretare che la Divisione Tevere era considerata una divisione simbolo dell’eroismo e della volontà italica.
Come abbiamo raccontato nella Prima Parte, anche gli italiani d’Argentina -compresi alcuni che non erano ideologicamente fascisti- chiesero di partecipare come volontari nell’impresa in Africa Orientale.
Come si è detto, la Comunità degli italoargentini reclutò un contingente di volontari composto da oltre settecento uomini che partirono in quattro spedizioni successive ma il caso dell'Argentina non era unico, in Brasile il numero di volontari era più grande ancora.
Fra i volontari dell'Argentina c’era una sezione costituita dai fascisti storici del quartiere di Avellaneda chiamata “Mayor Rosasco”. Fra questi c’erano Felipe Simeone, Horacio Bianchetti, Ivo Cecarini e Patricio Tribola. I volontari non erano solo residenti di Buenos Aires e della Capitale dello Stato ma anche mendocinos e cordobeses.
Il reclutamento degli italiani fu organizzato -non in segreto ma con prudenza- principalmente dagli agenti consolari e dai simpatizzanti fascisti.
Il secondo contingente contava, fra i suoi volontari, di Saverio Patti, membro dirigente della Unione Calabrese, che scrisse una lettera indirizzata al Giornale d'Italia, prima di partire l’11/10/1935. La lettera ci darà un'idea di come il fascista italiano viveva la mobilizzazione ordinata da Mussolini:
“Signor Presidente della Società Unione Calabrese; membri della Commissione direttiva; Camerati:
Contro i selvaggi abissini, per un dovere patrio e per la fede al Duce, Capo Supremo della nostra grande Italia, partirò venerdì prossimo, undici del corrente mese per la Madre Patria come volontario nella guerra italo-abissina. Come squadrista, vecchia Camicia Nera, ho la certezza di prendere per il collo molti di quelli che un tempo furono un ostacolo alla nostra grande impresa. A voi camerati il mio fervente saluto e i miei voti con un “eja” sincero e caloroso alla Unione Calabrese”.
Non si trattava solo di partire per un’avventura e andare a combattere per la patria in terre lontane abbandonando la famiglia e il lavoro, forse altri erano stati tentati dalla possibilità di sviluppare attività o di acquisire degli appezzamenti di terra in Africa.
Molti erano figli di immigranti nati in Argentina che sentivano come propria la chiamata di Mussolini agli italiani del mondo come i volontari Emilio Carabelli, Achille Borgatta, Michele de Nicoló, Giovanni Signorelli od Italo Borgatta.
Si può notare, nei differenti contingenti, la presenza di ex combattenti della Grande Guerra, fra questi veterani c’erano Luigi Moglia, Uras Giammichele, Raffaele Labonia e Diodato Zoratti.
I contingenti di italoargentini cominciarono ad arrivare in Italia il 17 ottobre. Il primo, imbarcato sull’Augustus, arrivò con 450 uomini fra i volontari di Argentina, Uruguay e Brasile. A Mogadiscio, nella Somalia italiana confinante con l'Etiopia, arrivarono già all’inizio di dicembre del 1935 potenziando la Divisione Tevere e passarono agli ordini diretti di Piero Parini, un leggendario fascista funzionario di Mussolini ed ex combattente della Grande Guerra. I volontari attesero quattro mesi a Mogadiscio prima di poter essere condotti in battaglia.
In Etiopia la unità prese il nome di Legione Parini e militarmente era integrata nella Divisione Tevere con la denominazione di 221a Legione.
Nell’aprile del 1936 questa unità era pronta ad entrare in battaglia, con le limitazioni proprie di un contingente che includeva mutilati della Grande Guerra, uomini anziani e italiani lontani dalla propria terra e dalle arti militari. Infatti, la campagna militare era già determinata. Malgrado ciò, all’inizio del mese fu dato loro l’ordine di prepararsi ad avanzare all’interno di una offensiva generale che partiva dal sud dell’Abissinia. Facevano parte della colonna del generale Frusci ed entrarono in combattimento il giorno 24 sulle alture di Gomar e Dane.
La Legione Parini era schierata al centro, mentre ai suoi fianchi c’erano unità arabe e somale che combattevano per l'Italia. Così un Generale italiano riferisce quelle azioni: “La resistenza del nemico è sanguinosa, l'attacco più risoluto lo ricaccia sulla fossa di Birgod, posizione fortificata di rinforzo, ad avanguardia della linea di difesa principale di Hamanlei. Durante il giorno 24, gli assalti succedono agli assalti; la difesa è sempre tenace. Le caverne ben dissimulate offrono un sicuro riparo e le numerose mitragliatrici di cui dispongono gli abissini permettono di tenere a distanza le nostre valorose unità. Durante la notte, dopo un ultimo tentativo di controffensiva, la difesa si ripara nelle trincee e nelle caverne della posizione principale. All'alba del 25, il Generale Frusci fa avanzare le batterie da 65 a trecento metri dal nemico e, dopo una violentissima azione di fuoco, lancia all’assalto le unità del settore centrale composta dalle unità arabo-somali…”
Da allora si produsse una grande quantità di perdite fra gli arabo-somali che si lanciarono in uno scontro corpo a corpo. Secondo la stessa relazione, la Legione Parini partecipò soffrendo una sola perdita. Infine la posizione fortificata di Hamanlei fu conquistata il giorno 25 aprile. Questo fu il battesimo di fuoco per la Legione Parini.
Il giorno 29 i “fasci all’estero” in Abissinia si dedicarono ad inseguire il nemico in ritirata. L’aspetto più duro della lotta era forse dover combattere su un terreno pantanoso e inondato dalle piogge di una furiosa tempesta. In quei giorni furono presi altri luoghi prima dell'avanzata delle varie unità italiane. Il 9 maggio, la Legione Parini arrivò definitivamente a Dire Daua.
Ci furono cinque morti in tutta la campagna. Il contingente più grande arrivò a Buenos Aires nel dicembre 1936 .
Evidentemente i volontari italoargentini avevano fatto parte di una unità militare più simbolica che combattente, il cui reclutamento era stato più utile per la propaganda fascista di quanto effettivamente fece in campo bellico. Tuttavia, i volontari dovettero affrontare i rigori del clima, di una terra e di una geografia ostile, lasciando i loro posti di lavoro quotidiano in onore di una causa che consideravano patriottica.
Viene qui riportato il discorso del Maresciallo Graziani tenuto alla 221a e 321a Legione dei Fasci Italiani all´Estero quando partirono da Addis Abeba il 25 agosto1936 per ritornare in Italia. Erano presenti i generali Pedretti, Gariboldi, Gallina e Broglia. Il discorso è presente nel quotidiano Il Mattino d´Italia del 25 agosto 1936.
"Ufficiali, graduati, legionari:
Potete partire soddisfatti di voi stessi, così come io sono soddisfatto di voi. Nei disagi, gagliardamente sopportati, come nei combattimenti, valorosamente sostenuti, avete assolto in pieno il vostro dovere di soldati dell’Italia fascista.
Il vostro sangue generoso ha contribuito a fecondare il nuovo impero d’Italia voluto dal Duce, germogliato dalla Rivoluzione fascista, realizzato dai soldati d’Italia nel nome del Re.
Tornate ora ai lontani paesi esteri dai quali siete venuti e tornatevi con la fronte alta a rappresentarvi la nuova Italia vittoriosa. Cittadini dell’Impero d’Italia, siate sempre all’estero buoni italiani come siete stati buoni soldati. Ovunque andiate e in qualsiasi circostanza, siate sempre orgogliosi della vostra patria, sempre fieri di appartenere al nostro popolo millenario che nulla ha da apprendere dagli altri, che alle altre genti molto ha insegnato nei secoli come ora.
Oltre che alla conquista dell’Impero avete avuto l’onore di contribuire al suo consolidamento nelle recenti operazioni di polizia coloniale durante le quali foste gli stessi superbi legionari di Sassabaneh.
Bravi. Che la vita ora vi sorrida e la fortuna vi assista. In alto i gagliardetti gloriosi.
Saluto al Re! Saluto al Duce!"


(Un ringraziamento molto speciale ad Hernan Capizzano cui informazione mi e' stata molto utile)

CARNEVALE: IL SOGNO DI DIVENTARE UN'ALTRO

Il carnevale ha un’origine molto antica ed il suo nome, secondo alcuni storici, viene riferito a non mangiare la carne perchè “la carne è debole”. Tradizionalmente nei paesi cattolici -come l’Argentina- il Carnevale inizia con la Domenica di Settuagesima e finisce il martedì precedente al mercoledì delle Ceneri che segna l'inizio della Quaresima.
Altri invece affermano che l’origine del carnevale risale alle feste pagane in onore di Bacco in cui si mangiava, si beveva e ci si divertiva più del consueto.
Qualunque sia l’origine vera del carnevale, certo è che viene festeggiato dappertutto con caratteristiche diverse.
Ad esempio ai tempi della mia fanciullezza e giovinezza, il carnevale significava il sogno di diventare un altro, almeno per qualche ora di magia, acqua profumata, serpentine e carta tritata da buttare in faccia agli altri.
Erano tempi di ballare al salone del Club Sociale del posto, di secchiate d’acqua sui marciapiedi di ogni quartiere e soprattutto tempi di fantasia, travestimento ed mascheramento.
Sulla rivista infantile Billiken, la famosa casa italoargentina Lamota, di Buenos Aires, pubblicava l’ampio stock di costumi e maschere sognate dai bambini dell’intero Paese.
Erano pure i tempi dei cartoon’s cartacei americani con le avventure degli eroi più popolari come Superman, Batman, D’Artagnan o Lonely Rider.
Allora, ognuno di noi chiedevamo a mamma e a papà il costume dell’eroe più ammirato ma quando la famiglia non aveva i soldi per comprarne uno, la mamma sedeva davanti la macchina da cucire e con tanta pazienza ne fabbricava uno su misura, basato nel modello copiato dalle riviste.
A sette anni mi ero travestito da Lonely Rider e ricordo ancora quel costume grigio fatto da mia mamma, con esso sono andato al “Corso”, organizzato dal Comune, sul viale centrale della città gremito di gente che gridava ed applaudiva al mio passo. Benché io non montavo Silver ne accanto a me c’era il compagno indiano, l’illusione di essere Lonely Rider per quel solo giorno mi aveva fatto tanto felice.
Ma perchè da noi chiamiamo “Corso de Carnaval” la sfilata di carri allegorici con delle regine, pattuglie, comparse, complessi e bande di musica che cercano di riscattare dei valori culturali, folclorici, sociali e turistici del paese?
Certo, in riferimento alla nota strada del centro di Roma -Via del Corso- detta comunemente il Corso, che collega Piazza Venezia a Piazza del Popolo e misura all'incirca 1,6 chilometri. Dobbiamo ricordare che su quel tracciato rettilineo si facevano le corse di cavalli del Carnevale, molto seguite dai romani fino al 1883 quando un incidente mortale portò alla sua abolizione. Poi il nome della via cambiò in Corso Umberto I dopo l'assassinio del sovrano nel 1900; nel 1944, divenne Corso del Popolo e, due anni dopo, venne reintrodotto quello che è il toponimo attuale.

CENT'ANNI DI RIVOLUZIONE FUTURISTA

"Il futurismo si fonda sul completo rinnovamento della sensibilità umana avvenuto per effetto delle grandi scoperte scientifiche. Coloro che oggi fanno uso del telegrafo, del telefono e del grammofono, del treno, della bicicletta, della motocicletta, dell’automobile, del transatlantico e del dirigibile, dell’aeroplano, del cinematografo, del grande quotidiano non pensano che queste diverse forme di comunicazione, di trasporto e d’informazione esercitano sulla loro psiche una decisiva influenza. Questa influenza sviluppa un ‘nuovo senso del mondo’: gli uomini conquistarono successivamente il senso della casa, il senso del quartiere in cui abitavano, il senso della città, il senso della zona geografica, il senso del continente. Oggi posseggono il senso del mondo; hanno mediocremente bisogno di sapere ciò che facevano i loro avi, un bisogno assiduo di sapere ciò che fanno i loro contemporanei di ogni parte del mondo: Conseguente necessità, per l’individuo, di comunicare con tutti i popoli della terra”.
In questo testo del 1913 -tratto da L’immaginazione senza fili e le parole in libertà- Filippo Tommaso Marinetti avvertiva chiaramente un periodo di cambiamenti radicali segnato da trasformazioni sociali, rivolgimenti politici e sconvolgenti scoperte tecnologiche e scientifiche.
La portata del cambiamento non aveva precedenti ed è proprio lui ed altri intellettuali e artisti ad avvertire con profonda consapevolezza che il mondo stava cambiando e, con esso, persino la percezione dello spazio, del tempo e il modo di vivere della gente.
Marinetti nel suo famoso manifesto esaltava il dinamismo, la velocità, l’industria eppure la guerra intesa come igiene del mondo.
Ecco perchè i futuristi furono considerati giovani irriverenti e arditi che condannavano con violenza il passato e col loro motto: “uccidiamo il chiaro di luna”, incitavano a realizzare un’arte rivoluzionaria con una nuova cosmovisione.
Il movimento esplorò i grossi cambiamenti in ogni campo dell’arte: pittura, scultura, poesia, teatro, musica, architettura, danza, fotografia, cinema nonche quello della gastronomía.
A Milano quindi, i pittori Umberto Boccioni, Carlo Carrà, Giacomo Balla, Gino Severini e Luigi Russolo, firmarono il “Manifesto tecnico della pittura futurista” che aboliva la prospettiva tradizionale e faceva propria una estetica della velocità, infatti nelle opere futuriste prevaleva il dinamismo, il movimento e la visione da più punti di vista.
Nel 1910 Boccioni, Carrà e Russolo, esponevano a Milano le prime opere futuriste alla Mostra d’arte libera nella fabbrica Ricordi.
Il 20 febbraio 2009, il Futurismo -con addetti in tutto il mondo- compie i 100 anni di vita e così lo ricordiamo dal nostro portale.

QUANDO IL RADIOTEATRO CI FACEVA SOGNARE

Tra gli anni ’30 e ’60 il radioteatro occupò un’importante spazio del passatempo popolare.
A quel tempo, la radio era la fedele compagna di tutti senz’alcuna distinzione e, sopratutto, delle sempre molto indaffarate casalinghe.
In ogni casa c’era una radio e con un minimo investimento si stava al corrente di quello che accadeva in tutto il mondo e, dettaglio importante, senza abbandonare ciò che si stava facendo con le mani!
Da quell’apparecchio magico uscivano voci e rumori che ci facevano immaginare situazioni e personaggi in piena azione.
La tecnologia aveva portato a casa il teatro in un modo diverso. Infatti, la sceneggiatura, i colori, i costumi e i volti, li mettevamo noi stessi a seconda dei dialoghi.
Incredibile ma vero.
Un radioteatro che andava in onda negli ultimi anni del ‘50 è rimasto inciso nella mia mente: La vendetta di Salvatore Giuliano. Anche mia mamma, che ha compiuto 87 anni, lo ricorda sempre con un po’ di nostalgia.
La vita e le avventure del brigante siciliano venivano alla conoscenza degli ascoltatori tramite la radiodiffusione.
L’autrice ed attrice, Nelida de Mendoza, ci faceva immaginare giorno dopo giorno, le corse del famoso bandito meridionale.
Tra un appuntamento e l’altro, l’ansia s’impadroniva e tutti trattavano di anticipare quello che poteva accadere a quel Robin Hood di Montelepre, che toglieva ai ricchi per dare ai poveri.
Intanto aspettavo il giorno dopo fingendo d’essere Salvatore Giuliano, nascondendomi nel boschetto di canne in modo da non cadere nelle mani dei carabinieri.
Dopo tanti anni, mi sono messo a studiare un po’ di più sul controverso personaggio dei giochi bambineschi che mi venivano ogni tanto alla memoria.
Riuscì a sapere che solo nel 2003 si stabilì ufficialmente che Salvatore Giuliano non era responsabile della strage di Portella della Ginestra accaduta nel 1947 e che, per sconfiggerlo, lo Stato italiano, sotto la guida di Enrico De Nicola, dovette scendere a patti con la mafia.
Malgrado il titolo dell’opera che parla di vendetta, posso stare tranquillo perché nei miei giochi, in cui fingevo di essere il brigante del radioteatro del pomeriggio, credo non aver fatto nessuna apologia del reato.
E mia mamma, che allora immaginava l’eroe leggendario come un bell’uomo, oggi può godersi, per la prima volta, la sua fotografía sul nostro Portale.

sábado, 14 de febrero de 2009

L'INTERVISTA DI PATRIZIA MARCHESELLI

Ecco il testo pubblicato sui portali italiani Lombardi nel Mondo (www.lombardinelmondo.org) e Mantovani nel Mondo (www.mantovaninelmondo.eu)

Jorge Garrappa, collaboratore del Portale, ci racconta la storia della sua famiglia: l’emigrazione dei nonni, i perchè e i quando, le difficoltà di allora, l’arte e le canzoni. Passato che svela il presente e le origini di molti italiani d’Argentina.

Jorge Alberto Garrappa Albani (Giorgio) nasce il 24 Marzo 1951 a Rafaela, Provincia di Santa Fe, Repubblica Argentina. Professione: Architetto, Professore Universitario presso l’Università Cattolica di Santa Fe e la Scuola Tecnica “Guillermo Lehmann” di Rafaela. L’origine materna era di Terno d’Isola, Provincia di Bergamo, Regione Lombardia e quella paterna di Canosa di Puglia, Provincia di Bari, Regione Puglia.

D - La sua famiglia in che anno è emigrata?
R - Il nonno lombardo -Pietro Albani- emigrò nel 1888 assieme a suo padre Battista e le sorelle Maria Caterina e Maria Carolina. Giunsero a Buenos Aires il 26 Ottobre 1888. Erano partiti dal porto di Genova.
Il nonno pugliese -Gaetano Garrappa- lo fece nel 1906, con un tutore perchè era ancora minorenne. Lui se la cavò da solo!
Tutt’e due emigrarono per motivi di lavoro, in cerca di un futuro migliore, per sfuggire dalla miseria insomma. Nel caso del bisnonno Albani, era rimasto vedovo poco prima e credo sia stato questo un’altro forte motivo per iniziare una nuova vita in America.

D - Ricorda il nome della nave?
R - Battista Albani con sua famiglia giunse di preciso sulla nave “Perseo”, piccolo battello di 4158 tonnellate, fatto apposta per trasportare “gente povera”. Gaetano Garrappa potrebbe essere giunto sul piroscafo “Brasile” ma non sono tanto certo perchè non risulta dai registri consultati. Forse quel foglio si è perso o rovinato com’è accaduto in altri casi.

D - Qual’era la loro professione in Italia?
R - Il bisnonno, Agnello Vincenzo, faceva il cocchiere del Conte Miani di Puglia e, secondo il passaporto, il nonno Gaetano aveva lo stesso mestiere.
Il bisnonno, Battista Albani, invece era contadino nell’Isola bergamasca, fra l’Adda ed il Brembo.


D - Come ricordavano l’Italia?
R - Purtroppo non ho mai conosciuto i nonni. Pietro morì nel ’29 e Gaetano nel ’50 però sono cresciuto accanto al mio caro prozio Felice Garrappa, nonno adottivo, che ho tanto amato, reduce della Grande Guerra. Fu proprio lui ad insegnarmi la lingua italiana, ad amare la terra natia ed il suo paese natio Polignano a Mare, nel basso Adriatico. Lui mi raccontava come aveva fatto la guerra da Caporale Mitragliere sul Grappa e ricordava spesso quel mare che diceva: "...sembrava una tavola blu" e gli mancava tanto.

D -Quali sono stati gli ostacoli più complessi all’arrivo nel nuovo paese?
R - Sono convinto che il peggio era la micidiale traversata transoceanica, poi credo sia stata la barriera della lingua. Imparavano lo spagnolo, certo, ma la pronuncia dialettale e l’inserimento di parole e modi di dire italiani, rimanevano per tutta la vita e diventavano il bersaglio degli scherzi altrui.

D - Ci sono tradizioni italiane (gastronomiche, patronali, familiari, canzoni che ricorda si cantavano o si cantano spesso) che si continuano a seguire? Quali?
R - La tradizione gastronomica famigliare va sempre rispettata a casa mia. La pasta, l’olio di oliva, la bagna cauda, il tiramisù o la panna cotta stanno con noi e fanno parte del buon mangiare.
Per fortuna sia la mamma che la moglie hanno ereditato questo dono e sono entrambe due bravissime cuoche.
Per quanto riguarda la cultura musicale, viene dal nonno pugliese e da mio padre Idiolindo Luigi, tutt’e due erano musicisti. Il nonno suonava il pistone (una specie di tromba) ed era sottodirettore della Banda del Comune. Mio papà suonava il tamburo assieme a lui. Poi formò l’orchestra da ballo Garrappa e la prima Sinfonica della Provincia che battezzò “Giacomo Puccini”, in cui suonavano pure mio padre e mio zio Cayetano, sotto la battuta del nonno.
Perciò il gusto per la musica mi viene sin dalla culla. Quando avevo sei anni cominciai a studiare il pianoforte ad un conservatorio, poi mi sono innamorato della batteria ed è quello che suono ancora oggi in un complesso con gli amici.
Sono un innamorato della musica italiana degli anni ‘50, ’60 e ’70. Muoio per Mimmo Modugno che, a parte di essere pugliese di Polignano a Mare, continua ad essere il punto di riferimento della canzone italiana. Comunque mi piacciono tantissime canzonette come “La Piemontesina” suonata da Piero Montanaro e colonne sonore bellissime come “Meraviglioso” del proprio Modugno, “Luglio” di Riccardo Del Turco, “Champagne” di Peppino Di Capri, “Rose Rosse” di Massimo Ranieri, “Siesta” di Bobby Solo, “I giorni dell’arcobaleno” di Nicola Di Bari, “Gesù bambino” di Lucio Dalla o “La riva bianca la riva nera” della Zanicchi.

D - Secondo Lei, quali sono i punti in comune tra l’ Italia e l’ Argentina e quali invece le differenze?
R - Secondo me le differenze geografiche sono grandissime, spesso immagino la loro sorpresa nell’arrivare in un territorio così esteso, orizzonti senza limiti e dover percorrere lunghissime distanze per ritrovarsi con il mare o la montagna!
Le città sono diverse perchè l’Argentina non ha avuto un medioevo come l’Italia, poi le somiglianze sono tantissime soprattutto nella nostra regione, cioè la Pampa Gringa.
Il sangue attira moltissimo e la cultura portata dalla diaspora italiana qui da noi è molto forte, basta vedere l’architettura delle sedi delle Società italiane, gli ospedali italiani, le vecchie case -ispirate alla “domus pompeiana”- oppure lo sviluppo straordinario delle piccole e medie imprese, di stile lombardo, insediate nei nostri pressi.

D - In quali situazioni sente di "agire" da italiano e in quali no? Perchè?
R - Io ed anche mia moglie, sentiamo di agire molto più da italiani che da argentini perchè l’Argentina è cambiata moltissimo negli ultimi trent’anni.
Sebbene l’Argentina è il Paese più italiano diciamo dopo l’Italia, per quantità d’italiani o discendenti, secondo me è retrocessa.

D - Qual`è il suo rapporto con la Regione Lombardia?
R - I primi rapporti con la Lombardia sono stati maggiormente sportivi cioè il mio cuore batte molto forte sia per la Ferrari che per il Milan.
Qualche anno fa, indagando sugli avi, ho contattato il caro amico bergamasco -Gabriele Previtali- Direttore del periodico “Il Giornale dell’Isola”. Con lui ho iniziato –nel 2001- i primi lavori giornalistici in italiano.
Però, il rapporto più forte ed organico con la Lombardia l’ho avuto grazie alla visita di un altro caro amico, Daniele Marconcini, presidente dell’Associazione Mantovani nel Mondo. In quel momento, ero alla Società Italiana ed aveva bisogno di un “cicerone” durante il suo percorso rafaelino. Io lo accompagnai volentieri e gli feci pure da interprete improvvisato.
Dopodichè Daniele mi costrinse a partecipare al Concorso Letterario Internazionale ENEA 2003. Il mio saggio, intitolato “Diario di Bordo”, venne sorprendentemente segnalato dalla notissima giuria dell’evento. E’ stato un grande onore per me, non lo dimenticherò mai.
Ancora una volta vengo scelto da Marconcini per fare il Corso di Dirigenti di Volontariato finanziato dalle Regione e organizzato a Mantova nel 2004. A quell’epoca io non rappresentavo nessuna Associazione e lui fece una grossa scommessa su di me inserendomi in uno staff internazionale così importante come il Portale Giornalistico Lombardi nel Mondo.
Da quel momento ho collaborato costantemente sia per realizzarlo che per consolidarlo. Per fortuna ce l’abbiamo fatta, ho pubblicato complessivamente circa 600 articoli ed il Portale è visitato giornalmente da migliaia di utenti da tutte le parti del mondo.

D - Qual`è il suo rapporto con la lingua italiana? E la cultura italiana?
R - Come ho già detto, la lingua non l’ho mai imparata a scuola ma da piccolo, 6 o 7 anni, a casa accanto allo ziononno Felice. Da quando lui mancò, nel ’69, avevo smesso di parlarla. Poi mi ero tuffato nell’ inglese, non so perchè.
Alla fine dgli anni’80 io e mia moglie avevamo collaborato con la traduzione di testi italiani per un saggio sulla presenza della Massoneria a Rafaela, scritto da un professore amico.
Poi nel ’97, prima di andare per la prima volta in Italia, ci siamo messi a ripassare un po’ da soli. Quando eravamo già in Italia ciò che aveva seminato Felice maturò ed io cominciai a parlare in italiano. Poi mia moglie frequentò la Dante Alighieri e mi aiutò moltissimo a perfezionare la grammatica italiana e l’italiano scritto.
La cultura italiana espressa dalla musica, l’architettura, la letteratura, la cucina e lo sport mi è stata sempre molto vicina, dentro.
Io credo che per ottenere la doppia cittadinanza -con i diritti a tutti gli effetti- sia obbligatorio una conoscenza della lingua, la cultura, la storia e la geografia italiana.

D - Ha visitato recentemente l’ Italia?
R - L’ultima volta che sono andato in Italia è stata nel 2004, invitato da Daniele Marconcini. Poi si è fatto più difficile ritornare nel Bel Paese. L’Italia dovrebbe promuovere una politica che faciliti ai discendenti visitare l’ Italia.

D - Ci parli di Lei: storie, racconti o aneddoti che vuole condividere con noi.
R - E’ difficile parlare di noi stessi, dovrebbero farlo gli altri. Comunque, Gianni Nazzaro canta una bella canzone, “A modo mio” e credo di rispecchiarmi nelle parole.
Nella mia vita ho fatto un po’ di tutto... forse per essere figlio unico e perciò troppo coccolato da mamma e da papà nonchè dal mio caro Felice.
Quando avevo 6 anni facevo equitazione con un cavallo da salto chiamato “Pichè”, alla stessa età cominciai a studiare il pianoforte come già detto. Ai sedici facevo il cameriere in una trattoria di Mar del Plata di cui mio padre era socio: La Più Bella era il nome del ristorante, immaginatevi!
Nel ’69, facevo parte di un complesso con cui facevamo musica Rock & Pop e partecipammo ad un concorso nazionale, classificati al terzo posto. L’anno dopo m’iscrissi all’Università di Cordoba fino ad ottenere la laurea in Architettura nel ’76. Nel frattempo facevo politica universitaria, schierato nel Peronismo giovanile. Nel ’72 e nel ’73 sono andato a ricevere l’esule Peron nel suo ritorno al Paese. Già laureato nel ’77 sposai una bella piemontesina: Ani Strada Lanzetti. In seguito vennero i nostri tre gioielli, Luciano (30), Nicolas (29) e Jorge Luis (25).
A parte la mia professione, che esercito da 30 anni, mi sono sempre piaciute la docenza e la politica per cui, dal 1978, sono professore presso la Scuola Tecnica e dal 2004 presso l’Università. Nel ’91, Assessore ai Lavori Pubblici del Comune di Rafaela e nel ’98 Segretario del Consiglio Comunale. Vicepresidente della Mutua Professionale per 10 anni e funzionario dell’Albo degli architetti della Provincia di Santa Fe, Vicepresidente della Società Italiana “Vittorio Emanuele II” di Rafaela.
Dall’avventura letteraria del 2003 a Mantova mi sono messo a scrivere prevalentemente racconti e saggi sull’emigrazione, partendo dalla mia ricerca famigliare, ma non solo.
Nel 2008, fu pubblicato il mio primo libro sull’architettura delle chiese di Rafaela promosso dal vescovado. Quest’anno ne uscirà un altro intitolato “I segreti della Cattedrale”: racconto storico-architettonico sulla Chiesa San Rafael.
Insomma...non sono stato un santo e lo sa pure Dio, ma ho sempre fatto tutto a modo mio...non è vero!?
Aneddoti? Ne ho tanti, mi viene in mente quel giorno del ’97 in cui andai a trovare i miei cari in Puglia. Io ed Ani eravamo a Roma e avevamo preso il Pendolino dalla Stazione Termini a Bari Centrale.

Devo dire che, poco prima di partire per l’Italia, avevo saputo che mio cugino Angelo era parrucchiere a Castellana Grotte e benché gli avessi inviato una mia fotografia per posta non lo conoscevo. Quando il treno si fermò a Bari, la stazione era talmente gremita di gente che sarebbe stato difficile trovarci. Siamo scesi, intanto io cercavo, ansioso, tra la folla. Vidi uno, aveva un atteggiamento molto famigliare per me e quando lo vidi camminare vidi in lui mio padre...e corsi verso di lui. Infatti era proprio Angelo... erano talmente simili le caratteristiche, non solo nei gesti, ma anche la voce assomigliava molto a quella di mio padre, incredibile ma vero. Mi chiese dove volevo andare e gli dissi: "Portatemi al cimitero...voglio visitare i miei cari scomparsi... e poi dove volete voi". Sono tornato a casa e volevo sapere tutto della famiglia lontana. Quei pochi giorni non li dimenticherò mai e li porterò con me fino all’ultimo sospiro.

Patrizia Marcheselli - http://patriziamarcheselli.blogspot.com/
Portale Lombardi nel Mondo

A LAMENTARTI...DA CADORNA!

Questo è un modo di dire molto usato abitualmente dagli argentini, in particolare i porteños. Ma a quale Cadorna si fa riferimento?
Certo che essendo circa 4.000.000 gli italiani con i diritti acquisiti, ci saranno in tanti a saperlo, ci ho pensato.
Io, che ho studiato la storia militare in genere, specie la Grande Guerra per la partecipazione di mio prozio Felice, ho letto sul ruolo compiuto dal Generalissimo Conte piemontese, e Maresciallo d’Italia, Luigi Cadorna, Capo del Comando Supremo che comandò le forze italiane contro l’Austria-Ungheria dall’inizio del conflitto -24 maggio 1915- fino alla sconfitta italiana di Caporetto dell’ottobre 1917. Dopodichè fu sostituito dal Generale napoletano, Armando Diaz, che portò l’Italia alla vittoria dell’ottobre 1918.
Mi sono rivolto, ancora una volta, alla storia italiana per indagare di più ed ho trovato un tale Carlo Cadorna (nato a Pallanza l’8 dicembre 1809 e morto a Roma il 2 dicembre 1891) politico, laureato in legge, Giudice aggiunto, Ministro, Presidente della Camera dei Deputati del Regno di Sardegna, Senatore, Prefetto di Torino e Ambasciatore a Londra. Semplicemente impressionante.
Poi un militare, il Conte Raffaele Cadorna Sr. (nato a Milano il 9 febbraio 1815 e morto a Torino il 6 febbraio 1897) fratello di Carlo, Generale e Politico. Notevole.
In seguito il figlio di Raffaele, Luigi Cadorna (nato a Pallanza il 4 settembre 1850 e morto a Bordighera il 21 dicembre 1928) di cui già abbiamo parlato all’inizio.
In fine c’era il figlio di Luigi, Raffaele Cadorna Jr. (nato a Verbania Pallanza il 12 settembre 1889 e morto a Verbania Pallanza il 20 dicembre 1973) militare durante la Seconda Guerra Mondiale e politico decorato dagli Stati Uniti con la Bronze Star Medal...! Mamma mia!
Mi sono venute in mente la stazione della metropolitana di Milano nonchè le importanti vie di ogni città d’Italia che portano questo nome. Le ho scartate.
Indagando sulle feste che festeggiavano gli italiani recati in Argentina nel XIX secolo, ho appreso che loro festeggiavano anzichè il 25 maggio, la presa di Roma e l’annessione di essa all’Italia. E chi comandava le forze che arrivarono alla Breccia di Porta Pia quel 20 settembre 1870? Esatto, il Conte Raffaele Cadorna, che contava tra i suoi Generali più noti Giuseppe Garibaldi, che pochi anni prima aveva pure combattuto nel Rio de la Plata contro le forze di Uribe e Rosas! E qui gli italiani garibaldini facevano festa per tre giorni ricordando quel Generale Cadorna... eroe dell’unità d’Italia!
Ce l’ho fatta! Mi sono detto. Ecco il palese testimone di come sia entrato nella storia argentina questo modo di dire scherzoso e assai ripettuto.
Ma...se non siete d’accordo, mi raccomando a lamentarVi... da Cadorna!

ROSARIO, LA “CHICAGO ARGENTINA”

Mentre a Chicago c'era il capo di tutti i capi mafiosi, Alfonso Capone, detto "scarface", qui invece c’eravamo un tale Giovanni Galiffi, detto "Ciccio Grande", di origine siciliana, recato in Argentina nel 1910 a 18 anni e radicatosi a Galvez, Provincia di Santa Fe.
La storia di questo Al Capone argentino è molto particolare perchè sebbene fu spesso accusato d’assassinio, scommesse, truffe e sequestro di persone, tra l’altro, non fu mai dimostrato nulla.
Cominciò come si dice dalla gavetta, da semplice operaio diventa parrucchiere, poi barista e falegname. In seguito comprò case e vigneti a Mendoza e San Juan e cavalli da corsa.
Dicono che questo ruolo d’imprenditore di successo era solo la facciata dietro la quale funzionava un impero mafioso di grande portata: l’Onorevole Società.
A questa organizzazione gli vennero attribuiti sia il sequestro che l’omicidio dello studente Abel Ayerza e di Silvio Alzogaray, giornalista del Crítica.
Ma la comparsa di Francesco Morrone, detto Alí Ben Amar el Sharpe o Ciccio Piccolo, fece tremare la struttura di Galiffi. Però a Rosario non poteva che esistere un solo "capo di tutti i capi".
Infatti, nel 1933, Morrone moriva impiccato dagli uomini di Don Galiffi. Dopodichè Ciccio Grande si consegnò all’autorità poliziale dicendo di essere stato vittima di falsità.
Senza prove contro di lui fu deportato in Italia nel 1935, già rientrato in Patria, fece stretta amicizia con Benito Mussolini.
Morì nel ‘43, in piena II Guerra Mondiale, durante un bombardamento alleato su Milano, ma non colpito dalle bombe ma da un infarto cardiaco nel suo letto.
Qui si dice spesso: morto il cane, finita la rabbia, però nessuno se ne accorse che il problema non era proprio un cane ma...una gatta!
Agata Cruz Galiffi, figlia di Don Ciccio Grande, sarebbe stata la protagonista del seguito di questa storia. La ragazza di occhi verdi, cappelli bruni e bella figura, portava senz’altro il DNA di suo padre che ammirava tanto.
Agata, detta la gatta, era cresciuta tra la prostituzione, i sequestri, l’assassinio e gli scontri di potere tra i capi mafiosi.
Lei si era accorta che tutto cominciò a crollare dal momento in cui Natalio Botana, proprietario del Giornale Critica, aveva proposto a suo padre un accordo che egli non accettò.
Da quel momento, le prime pagine del Critica non parlavano d’altro che di Don Ciccio Grande e delle operazioni portate avanti dall’Onorevole Società.
"La Gatta" Galiffi, accompagnata d’Arturo Pláceres, si propose di riorganizzare la Società creata da suo padre.
Aveva solo 23 anni quando nel 1938 venne presa, assieme al compagno, sotto accusa di una sparatoria –più degna della Chicago di Elliot Ness- e falsificazione di denaro. Nonostante ciò riuscirono a scappare a fuoco e piombo lasciando dietro di loro due poliziotti morti.
Tutti e due vennero nuovamente catturati il 23 maggio 1939 ed inviati a Tucumán. Ad Agata Galiffi diedero una condanna di 10 anni.
Pagato il debito con la società tornò a Rosario per poi trasferirsi a San Juan, dove i Galiffi avevano una bottega.
Nel 1972 fu scoperta dal giornalista di una rivista, faceva una vita pulita, da grande donna, proprietaria di un bel negozio di calzature.
La chiamavano "la Nena" o semplicemente signora –non più "la gatta"- e solo si parlava meraviglie su di lei.
Di quegli anni di avventura solo conservava un medaglione al collo con la foto di suo padre che aveva tanto amato.

FIUME ROSSO

Dedicato con affetto ai miei prozii Angelo e Felice Garrappa, due miei eroi della Grande Guerra

“Signor Presidente, Autorità Religiose, Civili e Militari:
Dal 23 giugno al 4 luglio del 1915, per salire il declivio dove sorge il Sacrario di Redipuglia, si sacrificarono i fanti delle Brigate “Cagliari” e “Savona”, sino a conquistare la quota 89 del Monte Sei Busi, perdendo 3.500 uomini, tra morti, feriti e dispersi, sui circa 9.000 impegnati nell’azione con l’attribuzione delle prime due medaglie d’oro della Grande Guerra al Sergente del Genio Giovanni Rossi ed al Fante Giulio Zanon, caduti eroicamente dove oggi è collocato l’osservatorio sulla sommità del monte.
Era la prima delle undici offensive dell’Isonzo, per affacciarsi sull’altipiano verso la “Santa Gorizia”, il San Michele, il Sabotino, il Monte Santo, nomi familiari agli italiani come più tardi quelli del Piave, di Vittorio Veneto, del Grappa, del Montello.
Ma prima dei ragazzi del ’99, che riscattarono la sconfitta di Caporetto, centinaia di migliaia di Fanti, Bersaglieri, Alpini, Artiglieri, avevano sofferto nel 1915, nel 1916 e nel 1917 in località sconosciute ai più ma non ai combattenti: Nad Logem, Hudi Log, Nova Vas, Veliky Hribach, Fayti, Pecinka, Castagnevizza, il Carso dimenticato fatto di brulle e tristi colline sassose, con migliaia di caduti per conquistare pochi metri di terreno, attorno a capisaldi maledetti e rimaledetti nella loro lugubre fama in un territorio lunare ed ostile, dove niente e nessuno ricordava la Patria ed i motivi per i quali si stava combattendo.
Ma fu proprio grazie al sacrificio di chi combatté e morì nelle undici battaglie dell’Isonzo, che nel 1918 si poté portare al collasso l’esercito nemico, sfibrato e logorato da 41 mesi di durissima lotta…
Voglio ripetere qui le parole dette tanti anni fa su Redipuglia da un grande combattente e scrittore, Paolo Caccia Dominioni:
…Si saliva il bastione, maledetto dai fanti, si sbucava sull’altipiano, deserto ondulato di pietra dove nasceva il raccapriccio, nel fetore del dissolvimento e nell’agguato della morte…
Per popolare Redipuglia si vuotarono intere aule universitarie, e furono mietute, come sconfinati campi di grano, falangi di contadini. Per nominare soltanto le due categorie più provate".
Il Sacrario di Redipuglia nacque dalla pietà che i vivi devono ai morti. Monumento di alta civiltà spuntato dalla barbarie della guerra. Costruito ad immagine del Calvario su quella stessa terra che fu il Golgota per migliaia e migliaia di vite. Il sacrario con i morti che custodisce resta perenne richiamo alla coscienza dei vivi.
Quando ormai quasi nessuno parla di Patria, qui continuano ad incontrarsi migliaia di italiani. Il muto appello di Redipuglia è raccolto ogni anno senza defezioni. Per alcuni arrivarvi è un’impresa fatta di estenuanti viaggi.
“Ogni parola qui deve essere soppesata e misurata, perché ai morti non si mente". Il pellegrinaggio non si è mai fermato, anche se ormai pochissimi sono gli ex combattenti della 15/18 e pochi i figli di chi scomparve in quella guerra, molti dei quali ogni anno, a cominciare dagli anni ’20, non hanno mai rinunciato ad essere presenti il 4 novembre per ricordare il papà mai conosciuto.
Noi abbiamo un dovere morale da adempiere: non dimenticare, non dimenticare mai ciascuno di questa moltitudine di ragazzi e di uomini la cui vita si è spezzata un giorno di tanti anni fa. Ricordare il loro sacrificio, le incredibili condizioni in cui si trovarono ad operare, il terrore dell’assalto sotto il fuoco nemico, gli stati d’animo che soldati poeti, come Ungaretti, ci hanno lasciato con versi indimenticabili: “soldati, si sta come d’autunno sugli alberi le foglie, fratelli, di che reggimento siete?, voce tremante nella notte”, in cui si esaltavano anche lo spirito di fraternità e di solidarietà, ancora scolpito in migliaia di graffiti rimasti come testimonianza tra trincee, camminamenti e doline…”

Il discorso del vecchio reduce del massacro dell’Isonzo, veniva ricorrentemente interrotto dall’applauso della folla che gremiva il Monte Sant’Elia.
Felice sentiva ancora una profonda tristezza nel ricordare suo fratello, morto nel fior della vita.
Con lentezza si voltò a guardare, ancora una volta, quel fiume che scorreva laggiù.
Il sole gli strappava delle bellissime sfumature azzurre, verdi, rosse...
Snodò il suo fazzoleto da collo con cui asciugò qualche lacrima randagia che gli si sfuggiva dagli occhi.
Sul centro della stoffa, ormai ingiallita, rivide quella mappa dell’Italia, incorniciata al rosso con gli stemmi provinciali e, ad ogni angolo, le arme del Regno d’Italia, Roma, Trento e Trieste...poi, il suo sguardo andò a fissarsi su quello che c’era scritto li:

ITALIA-REDENTA ED UNA-PER VALORE DEI SUOI SOLDATI-3 NOVEMBRE 1918

- Carissimo fratello... -mormorò- riposati in pace...il tuo sacrificio non è stato invano...!
Se ne andò lentamente, dalla spianata lastricata, mentre le ultime parole del vecchio reduce venivano ancora incoronate dall’applauso sostenuto della multitudine riunita.

Dall’interno della sartoria, il ragazzo di bassa statura, cappelli neri ed occhi castani, guardava la gente che, a quell’ora, camminava per la strada.
Ricorrentemente gli veniva in mente il suo paese natio con i suoi dirupi scuri e foracchiati dal secolare viavai del Mare Adriatico.
Spesso gli mancavano quei giorni passati a Polignano ma, il peggio di tutto era che non sapeva bene quando sarebbe tornato laggiù. Forse quando il padrone decidesse traslocare suo padre ad un altro posto della Puglia.
Ma la sua preoccupazione non era proprio quella, ma la prossima leva. Il 6 giugno 1913 aveva compiuto i 18 anni e forti venti di guerra soffiavano dappertutto in Europa.
Pensava proprio a quello quando, il postino, appoggiò la vecchia bicicletta “Bianchi” sul muro della sartoria e buttò all’indietro il copricapo.
Un forte brivido gli percorse la schiena quando lo vide strarre, dal fondo della borsa di cuoio, una busta che poco dopo gli verrebbe consegnata in mano.
Inalo profondo e poi l’aprì con un sospiro di rasegnazione...niente da fare, tra poco doveva fare il militare.
Andò a informare il padrone che, in quel momento, faceva la cucitura di un completo nero su misura.
Costante Giacobino, con al collo il solito centimetro di tela cerata, lo guardò negli occhi con curiosità e un po' di preoccupazione.
- Che c’è Angelino?
Con il volto impallidito e la mano ancora tremante, gli consegño l’avviso.
- Allora...meglio te ne vai, comunque c’è poco da fare qui oggi...ci vediamo domani.

Il 28 giugno 1914, Angelo c’era in caserma e quella brutta notizia cadeva come una bomba: l’Archiduca dell’Austria e la moglie erano stati uccisi a Sarajevo...da uno studente servo, dicevano.
La reazione dell’Impero Austro-Ungarico non si fece aspettare di molto. Infatti il 18 novembre dichiarava la guerra alla Serbia.
Angelo intanto, finiva il suo periodo d’istruzione e gli veniva concesso il “Congedo Illimitato”.
Nel tardo pomeriggio scese dal treno fra una fitta nuvola di fumo bianco. Con la borsa in bandoliera infilò a casa. Giunto al n° 5 del Corso San Vito, si voltò con lentezza a guardare lungo tutta la strada, poi espinse il battente della porta che cigolo lievemente.
Il bastardino di casa abbaiò due volte e gli venne incontro proprio come un lampo. Buttò per terra il bagaglio e lo coccolò con tenerezza mentre il cagniolino si contorceva impazzito con le zampe all’insu.
- Ciao carino...come stai...lo sai che mi hai mancato moltissimo pure te...
Un’ombra sul pavimento pulito gli fece alzare gli occhi...la mamma e la nonna vi erano davanti a lui con delle lacrime solcandole le loro guancie.
- Fighiu miu...sei tornato...la Madonna della Vetrana c'ha ascoltati...!
A tutt’e due abbracciò e baciò più di cento volte, sapeva bene che si sarebbe fermato per poco tempo. Poi andò a ritrovare Lellina, Anna e la piccola Ida che piangeva di gioia ed emozione.
Poi arrivarono Vito e “Peppino” e più tardi suo padre Agnello e suo fratello Felice che faceva da scalpellino. Tutti e tre si fusero in un strettissimo abbraccio. Dopo cena dovette raccontare loro le sue avventure visute in caserma fino a notte inoltrata.
Benchè i giorni passavano pressochè normalmente, l’Alleanza firmata con la Germania e con l’Austria, crollava inesorabilmente e la entrata in guerra dell’Italia sembrava inevitabile.
L’estate e l’autunno passarono di corsa, arrivò pure l’inverno e con se l’ultimo Santo Natale di pace.
Le speranze scadevano 13 gennaio 1915, perche Angelo veniva ancora ingaggiato e destinato al 7mo. Reggimento Fantería della Brigata ”Cuneo”.
Il 23 maggio del ’15, l’Italia dichiarava la guerra all’Austria-Ungheria e all’indomani cominciavano le prime operazioni militari su di un lungo fronte che scorreva dal Passo Stelvio al Mare Adriatico.
I primi giorni sembravano proprio la “passeggiata” che si augurava il Cadorna e quel primo balzo risultava talmente semplice che rapidamente furono conquistate la conca di Caporetto, la dorsale tra l’Isonzo e lo Judrio e la pianura friulana.
Ma poco dopo si scoprirebbe che la “ritirata” degli austriaci, oltre il Fiume Isonzo, solo faceva parte di una intelligente strategia per difendersi meglio dagli attacchi italiani.
Malgrado ciò, il 21 giugno, la 2da. Armata attaccava il campo trincerato di Gorizia sulla margine destra dell’Isonzo mentre la 3za., con a capo il Duca d’Aosta, tentava di progredire sul Carso fra le località di Sagrado e Monfalcone.
Cosi cominciava il macello delle Brigate “Cagliari” e “Savona” che venivano letteralmente "cancellate" nel manco tentativo di conquistare le varie quote nei pressi di Redipuglia.

Correva l’undicesimo giorno di luglio ed avendo dimenticato che “il superiore ha sempre ragione, specie quando ha torto”, Angelo si guadagnava il Tribunale Militare di Milano e spettavasi una dura punizione per insubordinazione.
Appena ripresa l’offensiva italiana, la Divisione Territoriale di Milano, gli faceva sapere il suo nuovo destino: 3za. Compagnia, 15mo. Reggimento Fanteria, Brigata “Savona”...tutto detto...!
Qualcuno, al suo posto, avrebbe preferito mille volte andare a finire in galera anzichè far parte di quella disanguata unità, ora in forza al Xmo. Corpo d’Armata, che doveva rafforzare il maledetto triangolo tra Redipuglia, Doberdo e Monfalcone.
- Come mai non ho taciuto quel giorno...ma’naggia...mo m’aspetta il fronte della morte... Si rimproverò con fastidio e amarezza.

Nell’estate, giunse in treno con le truppe di rincalzo, alla “Testa di Ponte” di Sagrado e nell’attraversare quel ponte di barche potè aprezzare, per la prima volta, le belle sfumature azzurro-verdi dell’Isonzo. Già sull’altra sponda, salirono su di un camion che li porterebbe proprio nel fronte della battaglia.
A poco di andare si trovarono con una colonna di veri scheletri umani che tornavano stanchi e ricoperti di fango dall’altopiano carsico. Sui loro volti sporchi si intravedeva una forte sensazione di smarrimento ed abbandono...
Si spaventò, però l’urlo del sottotenente Petrelli, lo strappò violentamente dai suoi pensieri.
Ci siamo soldatini!...quest’è l’ultima fermata e ricordatevi: non mollare fino a Trieste...!
Scesero su di una spianata acerchiata da muretti di roccia bianca e baraccamenti che servivano da ospedale, cucina e magazzini da campagna della Divisione.
Al centro c’era un cumulo di pietre con una croce sopra, alta circa 4 metri, con l’immagine del Gesù scolpita.
Dirimpetto all’ospedale, distesa sul terreno e verniciata al rosso, c’era un’altra croce ma solo visibile da un aereo.
Tra i due baraccamenti di sinistra c’era l’imbocco del caminamento della trincea che, in avanti, farebbe parte della vita quotidiana.
Più in la, un paesaggio quasi “lunare”, si estendeva come un mare ondeggiante di roccia che si mangiava gli stivali ed esauriva le scarse forze umane.
C’erano nel cuore stesso del Carso.
Il rombo dei proiettili d’artiglieria ed il balbettamento delle mitragliatrici facevano un fantastico contrapunto di fuoco e piombo.
Ad uno ad uno, il caminamento gli ingoiò tutti come una boa sdraiata su quella dolina puzzolente di morte ed orina e non era proprio il caso di vomitare ma di abituarsi al più presto possibile.
Quest’era la guerra vera.
Salvatore Mariucci, un ragazzo di Costacciaro, precedeva Angelo nella fila indiana.
- Salvato...da quando sei qui? - gli sussurrò all’orecchio.
- Dal 1° luglio...arrivai coi ragazzi della “Cagliari”...ci siamo battuti spaventosamente per superare la resistenza austriaca ma non ce l’abbiamo fatta...!
- Altro che “Passeggiata”...altro che guerra “alla garibaldina”... tutte stronzate!...accenò Angelo ed alzando un po’ la testa diede un’occhiata alle postazioni nemiche.
- Moriranno ancora in tanti se l’artiglieria non fa il suo compito presto e bene. Dice Salvatore.

Il dialogo viene interrotto dal passaparola
- La testa giù...i cecchini tedeschi sono bravissimi con il “Mannlicher”...
Con intermittenza taccevano i cannoni e le mitragliatrici ma gli uditi rimanevano ancora rombando almeno per un quarto d’ora.
L’arrivo dei rincalzi, alla “Dolina dei 500” sul Monte Sei Busi, continuò ancora per due giorni prima di scattare l’attacco contro i bastioni del Monte Quercetto, detto Monte Hermada.

Alle sei del mattino, il tambureggiamento dei grossi cannoni del III°. Reggimento di Artigliería da Campagna, colpiva curatamente le postazioni austriache sulla sommità del Monte Hermada.
Il martellamento andò in calo finchè il 136° reggimento sferrò l’attacco, alla baionetta, sotto una grandinata dei letali “shrapnell”...la pioggia di fuoco e piombo cadeva anche sulle retrovie e sul fiume sollevando altissime colonne d’acqua.
I fanti dei reggimenti 15mo. e 16mo., della “Savona”, cercavano di ripararsi in attesa dell’ordine di appoggiare la “Campania”, lanciata all’attacco.
- Compagni pregate perche al più presto ci diano gli elmetti promessi, altrimenti non ce la faremo! - Disse Angelo.
- Qualcuno mi ha detto che stanno per arrivare dalla Francia...sul fronte occidentale già gli usano da quasi un anno... - rispose Salvatore.
I cannoni nemici continuavano ad urlare quando il contrattacco viene lanciato con l'appoggio della 2° Battería del Capitano Leopardi. Per fortuna, la loro precisione obbligava l’avversario ad arretrarsi di un bel po’.
Dopo quella prima corsa Angelo cerca Salvatore.
Tornando sui suoi passi, finalmente lo vide...vi era li...fermo, col capo strozzato in mezzo un bozzo di sangue. Disperato sollevò il camerata portandolo di corsa in retroguardia.
- Queste ferite di “shrapnell” sono il peggio di tutto perche le pallotole rimangono all’interno del cranio ed è molto difficile strarle...mi dispiace - Disse il chirurgo, davanti il corpo inerte dello sciagurato fante.
- Salvato...se ne’andò molto presto...e tutti noi gli raggiungeremo forse oggi oppure domani...
Con gli occhi ancora umidi e un nodo alla gola uscì per cercare un’angolo tranquillo per ripararsi della pioggia, ora più pertinace del fuoco dell’artiglieria austriaca.
- Mentre soffia lo scirocco non farà bel tempo - Disse e seduto si addormentò.

Fra continui attacchi e contrattacchi, il 3 settembre, arrivò un Generale francese: Joffre. Dicevano per trovare il Cadorna e farsi un'idea dal vivo sulla situazione nel fronte italiano.
All’indomani si recò a Monfalcone e, assieme al Duca d'Aosta, visitò diversi punti della difesa verso gli avamposti. Quella domenica, tutti assistettero alla messa del soldato celebrata da Don Semeria.
- Beati noi...per averne questo francese...almeno abbiamo mangiato più del consueto...

Allo spuntare l’alba dell’8 ottobre una nuova battaglia stava per iniziare e il 15mo. Reggimento stavolta doveva aprire un varco nelle postazioni nemiche... fino al ultimo sangue se necessario.
- Ave o maria...piena di grazia...il signore è con te...tu sei benedetta fra le donne e benedetto è il frutto del ventre tuo, Gesù....
La preghiera venne interrotta dal subito silenzio dei cannoni...allora, la voce del sottotenente Petrelli bramò ancora una volta:
- Avanti soldati!...la battaglia è nostra!...Evviva L’Italia!...
Una dopo l’altra, ondate di soldati uscivano urlando dalle trincee per salire quel declivio sotto l’insidioso fuoco delle mitragliatrici “Schwarzlose” che segavano la carne giovane come una immensa falce.
In pochi minuti il suolo rimase tappezzato di corpi gementi, spezzati...Angelo si buttò per terra cercando invano qualcuno vivo intorno lui.
Nessuno sembrava di essere a vita in mezzo quell’inferno dantesco, puzzolente di fango, sangue e morte...
- Mi manca qualche decina di metri per raggiungere quella trincea...Si asciugò le mani per stringere il fucile più forte ancora.
La cartuccia servita salto dalla retrocamera, spinse il catenaccio e innastò la baionetta per poi uscire dal pozzo sparando e cercando di non ciampicare con i resti umani sparsi dovunque.
Lassù scintillavano le bombarde...i reticolati, postati sulla sommità del monte, si ritagliavano contro il cielo illuminato dalle granate di grosso calibro.
- Sono ormai più vicino....forse ce la possa fare...ma che cavolo!...sono i miei camerate!...vi erano spariti tra il fumo e la fitta nebbia...!
A destra e sinistra, ora centinaia di soldati in divisa grigioverdi, rettavano verso l’anelata quota 89, difesa con unghie e denti dal feroce nemico.
Le voci gutturali degli accaniti difensori si sentivano sempre più chiaramente...senza pensare troppo ed a cuore battente si tuffò nella trincea della prima linea...per sua fortuna vi erano tutti morti ma un rombo crescente gli preannunciò ol scoppio vicino.
- Santa Maria...madre di Dio...prega per noi peccatori...adesso e nell’ora della nostra morte...amen... Tirò fuori un respiro di sollievo - Un’altra che non mi tocca....grazie Dio benedetto....
Ad intervalli regolari il suolo tremava e tutta sorta di frantumi e sassi gli cadevano adosso. Rimase fermo...teso...stringendo forte l’abitino della Madonnina come aveva promesso a sua mamma.
- Non potrei arretrare anche se volessi farlo...sarei un’uomo morto... -La minaccia di decimazione per mancato obbiettivo, gli girava in mente - Io non sono un disertore, preferirei morire in combattimento anzichè dal piombo di un plottone di fucilazione...a che distanza ci sarà quella maledetta mitragliatrice...venti...trenta metri?...pare tanto vicina invece è cosi lontana...potrei buttare una bomba a mano... -Pensava proprio a quello quando il fuoco andò in calo...da entrambe le due parti...!
- Che cavolo successe...?!...Il fuoco ha cessato...s’arrendono o ci arrendiamo noi...? Solo qualche sporadica bombarda illuminava il paesaggio lunare del Carso.
Il fumo e l’odore acre della polvere gli si metteva nelle fosse nassali già troppo irritate. Sentiva ancora fluire l’adrenalina a cantilene. L’esitazione gli aveva fatto persino dimenticare la fame e la sete che aveva.
- Quanti in più dovranno morire ancora?...solo il buon Dio lo saprà...spero di non essere nel suo odierno elenco... - Si mosse lentamente cercando la sua borraccia...un sapore dolce in bocca gli fa capire che le labbra erano insanguinate...spaccate forse per i nervi...oppure per la paura...?
- Per che no?...la paura è umana...e ce l’avranno pure loro... Come un balsamo, il liquido trasparente gli scorse per la gola. Una voce, partita dalla trincea nemica, in uno schietto italiano lo rimase paralizzato.
- Venite a raccogliere i vostri!... Non sono tutti morti!...sono soltanto feriti!... Dopo qualche momento di silenzio e stupefazione qualcuno rispose.
- Se siete italiani anche voi, perche ci combattete?...venite pure con noi...!
- Cosa importa adesso...ci vuole raccogliere i feriti....no? risposse la stessa voce.
- Tu chi sei?... domanda Angelo.
- Antonio...e tu...?
- Sono Angelo...ma dimmi, una sigaretta... per caso c’è l’hai...?
- Certo,...se tu avessi qualche cosa da mangiare a cambio...
fu la risposta seguita da una risata giovanile.
- C’ho solo un po di pane...e dell’acqua...
- Allora ...va bene per me!...

Dopo attendere per un tratto qualcuno alzò la testa e gridò.
- Avanti...senza sparare!...
Dalla trincea opposta si alzarono mani senz’armi...Angelo ne vide uno, con le sopracciglia abbondanti, indirizzarsi verso di lui con un pacchetto di sigarette in mano.
- Le sigarette ...tieni pure...per te sono...
Allora tolse il pezzo di pane avvicinandolo al soldato che si mise a mangiare a scquarciarelle come un morto di fame.
- Mangia piano e bevi qualche sorso d’acqua o ti sentirai male” gli offre la sua borraccia.
Per caso...eri tu a servire quella mitragliatrice?

- No, io solo faccio da “staffetta” cioè cavalco portando gli ordini e le notizie da un punto all'altro del fronte. Purtroppo mio cavallo venne ucciso proprio nei pressi del nido a cui fai riferimento e mi sono riparato li vicino...
- Ho capito...siamo stati fortunati tutti e due...” il soldato aprì gli occhi ed Angelo continuo a dire 
- Dimmi... come mai essendo pure italiano combatti contro di noi?
- Siamo sudditi dell’Imperatore...e la mia famiglia non vuole più appartenere al Regno d’Italia... risposse.
- Di dove sei...?
- Sono istriano...di Buje...ma se riuscisse a scappare da questo inferno me ne andrei di corsa in sudamerica...e tu cosa faresti?...
- Io sono un povero sarto del mezzogiorno e ci sto a difendere la Patria anzichè a “sua maestà”...
Il dialogo viene interrotto dall’ordine di raccogliere i prigionieri, morti e feriti e ritirarsi mentre la cessazione del fuoco fosse ancora in vigore.
- Addio Antonio...in bocca al lupo...
- Arrivederci!...buona fortuna anche a te...ti ricorderò sempre...

Tra il fumo ed il rumore di esplossioni lontane, migliaia di uomini stanchi, sporchi e bagnate, scendevano la collina portando con se loro camerati feriti o moribondi.
L’accampamento sembrava un’ospedale da campagna. Uomini spezzati, a cui le bendature impedivano individuare, si ammucchiavano dovunque.
Egli si sentiva esaurito percui andò verso la sponda del fiume. S’inchinò rimanendo immobile...un forte brivido gli percorse la schiena...tremava.
Le acque dell’Isonzo scorrevano colorate di rosso...dal sangue dei soldati morti più in la...
- Oh mio Dio...da dove viene questo sangue...da Sagrado...da Gradisca...sara possibile...? -Le lacrime versarono le sue palpebre solcandole il volto.
Il tramonto diede passo al buio...però l’artiglieria nemica ogni tanto rincominciava il solito compito e la risposta dei cannoni italiani faceva elettrizzare. Malgrado ciò feriti a centinaia continuavano ad arrivare al vivacco.
La temperatura calava in fretta e non si riprendeva della dantesca visione quando arrivò il rancio caldo.
- Finalmente!...qualcosa di caldo da mettere sotto i denti...
Si sentì un po meglio allora tolse una sigaretta tedesca mentre cercava un posto dove fumare tranquillo. Tra la bocconata di fumo vide un’altro giovanotto che lo gardava fisso negli occhi e verso di lui s’indirizzò...diede un’occhiata sul gallone di seta bianca con la stella ed il bottone argentato sulla stricia nera e gli disse:
- Brigata “Savona” vero?...ma non t’ho mai visto, come ti chiami?
- Salvatore...Moncada Salvatore...16mo. Reggimento...
- Salvato...?
Lo guardo fisso negli occhi.
- Si...perche?...cosa succede?... Gli domandò sorpresso il giovane.
- Poco fa ho perso un amico che si chiamava proprio come te...scusa...sono Angelo, 3za. Compagnia, 15mo. Reggimento...ne vuoi una sigaretta tedesca?...
- Va bene, grazie...io sono canicattese e arrivai sul fronte il 24 Maggio...
- E ti pare che sia passata un’eternità, vero?...Queste sigarette me le ha dato Antonio...credo sia andato a finire in prigionia nelle nostre retroguardie, non lo so di preciso.
Tiro fuori un’altra bocconata di fumo e sentenziò - Rallegrati di essere ancora vivo mio caro compagno...hai già visto come scorrono le acque del fiume?!...
Salvatore lo guardò in silenzio.
- Rosse!..tinte dal sangue dei soldati che muoiono più a nord eppure qua vicino noi!...Forse domani sia il nostro sangue ad aggiungersi quello loro e vada a finire nel mare...
Sollevando lo sguardo lanciò un’altra fitta bocconata di fumo.
- Stavo pensando proprio a quello...chissa possano vederlo perfino a Polignano...
Come se non volesse mollare cambiò subito discorso.
Dimmi, gli hai già scritto ai tuoi cari?...”
- Si e mi hanno risposto che mio fratello Gaetano, destinato nella II Armata, tornò dal Tridentino mutilato dopo gravi ferite ricevute in combattimento...
- Mi dispiace tanto...comunque devi rassegnarti almeno lui ha salvato la vita...
Aveva già smesso di piovere quando si addormentarono.
Il 9 fu una giornata di tesa calma e di grossi allestimenti per i prossimi combattimenti contro le avamposte austriache di Doberdò per puntare ancora sull’Hermada.
Aspettavasi una lunga nottata finche il tuono crescente dei cannoni anunciasse l’attacco all’alba e, per forza, sopportare ostinati contrattacchi fino all’ultimo sangue...come al solito.
Dal nulla, si sentì uno cantare a sottovoce e molti piegarsi a quella canzone popolare:
La mattina del cinque d'Agosto/Si muovevano le truppe Italiane/Per Gorizia le terre lontane/E dolente ognun si partì..../Sotto l'acqua che cadeva a rovesci/Grandinavano le palle nemiche/Su quei monti colline gran valli/Si moriva dicendo così.../Oh Gorizia tu sei maledetta/Per ogni cuore che sente coscienza/Dolorosa ci fu la partenza/E il ritorno per tutti non fu.../Cara moglie che tu non mi senti/Raccomando ai compagni vicini/Di tenermi da conto i bambini/Che io muoio invocando il suo nom.../Oh vigliacchi che voi ve ne state/Colle mogli sui letti di lana/Schernitori di noi carne umana/Questa guerra ci insegna a punir.../Oh Gorizia tu sei maledetta/Per ogni cuore che sente coscienza/Dolorosa ci fu la partenza/E il ritorno per tutti non fu...
Quasi sotto ipnosi si sollevò le mostreggiature del cappotto ed infilo verso la sponda del fiume. Guardò la luna in cielo con un cerchio attorno che si rifletteva sulle ondeggianti acque scure.
- Cerchio lontano...pioggia vicina... Disse, con la speranza che ciò rimandasse l’attacco programmato.
Fissò gli occhi sul fiume che cercava con avideza il mare e fece il gesto di toccare l’acqua...ma non ce la fece...
- Queste acque...come quelle del Giordano...diventeranno sacre...dal sangue giovane già versato e quello che sarà ancora versato...Quando questo massacro finisca verranno a pregare in tanti...lo so bene...Si fermeranno sulla collina...e vedranno questo fiume andare verso il mare...ed anche il mare si tingerà col sangue di migliaia di ragazzi che diedero le sue vite per riconquistare questo pezzo di terra aspra...Magari tale sacrificio valga la pena e qualche volta venga riconosciuto...

Tra i reclusi del campo di concentramento vi erano molti soldati della 5a. Armee Austriaca e l’ultimo tentativo di fuga aveva talmente fatto infuriare al Comandante da ordinare la fucilazione di un gruppo di sciagurati. Il plottone arrivò a passo di corsa fermandosi a secco dinanzi i condannati a morte. Uno di loro, s’apri la giacca ed urlò in uno schietto italiano:
- Vi prego, non mi fucilate, per Dio…sono italiano!...almeno non lo fatte in questa divisa...
Il capoplottone dubbitò un po’ e alzò il braccio in attesa.
- Come ti chiami soldato?...
- Giurgiovic Antonio... Rispose il candannato ancora tremante.
- Per che m’implori pietà se non l’hai avuta coi nostri camerate...?
- Io non uccisi nessuno...solo appartenevo ad un reparto logistico...da collegamento
L’ufficiale, turbato, concluse il discorso dicendo ”Portatelo via e continuate avanti con gli altri!...”
La scarica da fucileria alle spalle fece sapere Antonio che l’altissimo non gli aveva abbandonato. La guerra per lui era forse finita e con un pizzico di fortuna in più sarebbe riuscito ad andare pure in Argentina...

Sferrata l’enessima offensiva italiana, con a capo il Capitano Pietro Bernotti, il giovane canicattese caddè mortalmente ferito.
- Salvatore!...no! stai calmo...arrivo subito! Angelo corse ad aiutarlo mentre i fanti passano a loro fianco.
Con cura depostò per terra la testa insanguinata dell’amico e sollevò uno sguardo verso l’ alto.
- Oh mio Dio!...perche deve morire anche lui?... In quel momento tutto diventò buio. Una scheggia di granata lo aveva colpito alla tempia facendolo piegare sul corpo inerte di Salvatore.
Anche l’ardito Capitano giacceva sul suolo carsico tra il fumo e la fitta nebbia che copriva tutto il campo della battaglia.

Un annoiato furiere del Distretto Militare di Bari cercò il foglio numero 821 del Registro Matricolare e stampò un sigillo con un colpo secco. Poi, con lentezza, riempì sugli spazi punteggiati:

“...Morto in Redipuglia in combattimento in seguito a ferite riportate per fatto di guerra, come da atto di morte inserito al N°° 242 del registro degli atti di morte del 15° Reggimento Fanteria li 10 Ottobre 1915.”

Bussarono la porta numero 16 di Via San Vito ed Agnello sentì che il cuore gli si fermava... Aprì e vide un’uomo in divisa grigioverde di fronte a lui.
- Avanti ...si accomodi prego... Disse accenando la sedia più vicina della stanza.
- La ringrazio...non posso fermarmi di troppo... Rispose innervosito il giovane.
- Mi dispiace tanto portarVi questa brutta notizia...purtroppo vostro figlio Angelo è morto in combattimento...da eroe...in difesa della Patria...
Un profondo silenzio s’impadronì della stanza ed un’acuto dolore la invasse. Mamma Annetta abbracciò fortemente a Felice...non vorrebbe che le sia strappato un’altro figlio.

Rassegnato, il postino appoggiò ancora una volta la vecchia “Bianchi” nera sul muro di Via San Vito e bussò la porta. Già non gli piaceva più di tanto quel mestiere.
La piccola Ida arrivò di corsa e chiamo la mamma. L’avviso d’addunanza ora veniva indirizzato a Felice.
Il 12 aprile di quel 1917 egli partì per ritornare il 2 Maggio ma l’allegria durò ben poco, doveva ripartire il 17 per arruolarsi nella “Milizia Territoriale”.
Il 14 ottobre veniva promosso a Caporale ma le notizie più brutte giunsero dal Trentino dieci giorni più tardi...la rotta di Caporetto aveva costretto gli italiani a ritirarsi al di la del Piave con la perdita di circa 250.000 uomini e 300.000 sbandati.
L’Italia era alle porte del collàsso totale.
Le truppe rimanenti arrivarono alla nuova linea difensiva logore e stremate ma il disastro totale veniva solo evitato grazie alla coordinazione del ripiegamento.
Malgrado la stanchezza e le gravi condizioni logistiche e tattiche, i soldati si prodigarono alacremente per costruire una nuova barriera difensiva atta ad arrestare il nemico che, imbaldanzito dal recente successo, puntava alla totale distruzione delle Armate italiane.
Preceduti da un attacco respinto sull'Altopiano di Asiago, gli austro-ungarici, dopo una massiccia e violenta preparazione artigliera, il 14 novembre attaccavano in forze le nuove linee avanzate tra Cismon e Piave e venivano via via coinvolti anche il Monte Tomatico, il Roncone ed il Prasolan e poi, le quote ed i costoni che convergono su Cima Grappa. Riordinate le forze, l'11 dicembre, il nemico riprendeva con rinnovato vigore un’offensiva mirata ad aprire un varco strategico nelle difese italiane.
Felice, da circa un mese nel Reparto Mitraglieri 907-F di stanza a Barbarano, veniva trasferito al fronte il 15 dicembre e destinato alla 2286a. Compagnia Mitragliatrici alle dirette dipendenze dell’Armata del Grappa, comandata dal Generale Giardino.
Con unguie e denti furono respinti i successivi attacchi austro-tedeschi dai valorosi soldati che presidiavano la montagna sacra.
La 4a. Armata scrive con sangue giovane le sue pagine più gloriose ed il 21, l’ostinata ed accanita resistenza italiana, fa desistere il nemico da ogni ulteriore tentativo.
- Abbiamo vinto...si ritirano...! Esultò Felice.
- Mo pare di si...ma ritorneranno fra un po... Rispose chi riforniva i nastri della fumante mitragliatrice.
- Verranno ancora respinti...stiate pronti ragazzi...! - Nell’intonazione della voce di Felice s’intravedeva la sete di vendetta per la morte di suo fratello Angelo.

Durante l’inverno, la difesa italiana viene rafforzata con i lavori in roccia, trinceramenti, postazioni e reticolati, in previsione di altri e più massicci attacchi nemici.
L’Austria, consapevole del suo svantaggio strategico, intende di sferrare, con la XI Armata, l'attacco principale dagli Altopiani e dal Grappa per giungere, attraverso la piana di Vicenza, alle spalle delle difese sul Piave mentre l’Isonzo Armee e la 6ta. Armata avrebbero attaccato frontalmente attanagliando e distruggendo l’ultima difesa italiana. Infatti, il 15 giugno 1918, Conrad attacava sull’altopiano di Assiago ed il Monte Grappa mentre Boroevic tentava di superare il Montello in direzione Treviso.
Felice fisso gli occhi sull’orizzonte. Il sudore gli percorreva le spalle...si sentiva talmente teso che le formichelle gli venivano ricorrentemente al braccio...
Quando tacquero le artiglierie e senti l’urlo degli attacanti inquadrò la prima linea nel mirino e cominciò a sparare “a ventaglio” senza sosta...senza pietà...
Questo è per mio fratello...anche per me...! maledetti...Angelino non ne aveva nemmeno questo elmetto per coprirsi il capo... mormorava.
L’irruenza austriaca veniva bloccata e nella giornata successiva l’Esercito Italiano iniziava con esito un contrattacco avvolgente sul Montello ed il Basso Piave riuscendo a ricacciare il nemico dalle posizioni conquistate poco prima.
L’artiglieria e l’aviazione si prodigarono per tutta la giornata, verso il tramonto un “Caproni”, che volava a bassa quota, precipitò in fiamme.
La lotta infuriava ed il Comandante del Corpo d’Armata, di persona, lasciò il suo osservatorio e corse fra le truppe incuorandole all’assalto.
- Avanti soldati...evviva l’Italia...!
Nel passare accanto l’aereo caduto, Felice, vide il pilota ucciso...era un Maggiore...il povero ne aveva un orificio sanguinolento alla tempia.
- Grazie camerata per quello che hai fatto oggi per noi...mo sarai con Dio...e con il povero Angelino
Si combattè nelle case, nei fossi, nei campi, furiosa ed anche disperatamente fino all’ultimo sangue. Sulle pareti di una delle case diroccate rimase uno scritto: “Tutti eroi. O il Piave o accoppati”.
Non restava che vincere o morire.

Durissime battaglie difensive furono ormai vinte. Il nemico si ritirava oltre il fiume e l’intera linea del Piave era ripristinata allontanandosi la minaccia su Venezia. L’Italia era miracolosamente rinata dalle cenere e l’ora della vendetta era ormai giunta.
Ancora una volta la 4ta. Armata aveva il compito più difficile di tutti, separare le masse di manovra del Tirolo e del Piave e coinvolgere nella lotta tutte le riserve austriache. Questa mossa per facilitare l’azione di rottura delle Armate 8va. e 10ma. dal Piave in direzione Vittorio.
- Ora toccha a noi far d’oca davanti le mitragliatrici nemiche...Dio tenga pietà di noi...
L’intenso fuoco di preparazione dell’artiglieria iniziò alle 3 della notte del 24 ottobre e alle 7:15 le fanterie mossero all’attacco.
Lotta cruenta, durissima, di assalti e contrassalti, lotta che richiese abnegazione senza limiti alle truppe lanciate all’attacco contro posizioni che già avevano rivelato nelle lotte precedenti la loro inespugnabilità. Il 25 e il 26 ottobre la lotta sul Grappa diviene sempre più aspra; le alture passano di mano in mano, contese da fanterie italiane e austriache che dimostrano pari valore e straordinaria tenacia. Il sacrificio dell’armata del Grappa stava però già dando i primi frutti: il Comando Supremo Austro-Ungarico deve fare affluire sul monte le divisioni che aveva in riserva e che già non sarebbero più state disponibili per contrattaccare sul Piave.
- Ci siamo...almeno per ora ce l’abbiamo fatta...
Alle 8:00 del mattino il fuoco dell’artiglieria e la fiumana compivano l’opera di distruzione dei due ponti...Erano rimasti isolati dal grosso delle truppe nonche da loro rifornimenti. Malgrado ciò avvanzarono spugnando Mosnigo, oltrepassando Sernaglia ed occupando Falzè di Piave.
Sarebbe meglio fermarci qui...altrimenti comincerà a scarseggiare il munizionamento ed i viveri Pensò felice.
Caviglia invece cercava la gloria e fece una mossa decisiva, manda il suo XVIII° Corpo attacare fulmineamente i ponti dell’Armata Mista, varcare il fiume e puntare su Conigliano.
Più a sud anche la IIIa. Armata del Duca d’Aosta si muoveva forzando con aspri combattimenti, i passi del fiume e avanzava risoluta attraverso la piana.
Loro morti aspettavano sul Carso, aspettava Trieste, Gorizia...aspettava pure Angelo e migliaia di eroi caduti tre anni prima...!
Il 29 ottobre, le truppe entravano a Vittorio Veneto. I giorni successivi furono di feroci combattimenti fino a spingere oltre Isonzo le truppe austro-tedesche che lasciavano il territorio occupato con gravissime perdite di uomini e di materiale.
Finalmente, il 3 novembre 1918 l’Impero Austro-Ungarico firmava l’armistizio Villa Giusti, a Padova ed il 4 venivano sospessi i combattimenti su tutto il fronte di battaglia.
La Grande Guerra era ormai finita.
Felice era destinato al 4° Reparto Mitragliatrici e dopo quattro lunghi anni di sanguinosa guerra si aspettava un Santo Natale di pace.
Il 31 novembre veniva congedato e ritornava a casa sano e salvo. Capodanno sereno ma molto triste in una famiglia colpita dalla scomparsa di un figlio.
Il 15 Marzo 1919, Felice veniva ancora trasferito alla 2213a. Compagnia Mitragliatrici del 113° Reggimento Fanteria della Brigata “Mantova”. Il controllo militare dei territori ormai “redenti”, richiedevano di grande attenzione per gli scontri fra italiani ed austriaci che spesso accadevano.
Il 30 Giugno doveva fare trasloco alla 1174a. Compagnia Mitragliatrici del 114° Fanteria a cura di una “Fiat” modello 1914.
Per fortuna il 5 Settembre 1919 gli veine concesso il Congedo Illimitato non prima della “Dichiarazione di aver tenuto buona condotta e d’aver servito con Fedeltà ed Onore” alla Patria ed al Re.

Il fischio annunciò la partenza del treno fra una fitta nuvola di fumo. Felice affrettò il passo
sul binario gremito di gente.
- Carissimo fratello...riposati in pace...il tuo sacrificio non fu invano! - Mormorò, mentre il treno si allontanava dalla stazione di Venezia verso il sud.